Europa e interesse nazionale, i nostri due antidoti a Macron
La partita Italia-Francia sui cantieri navali è sospesa fino all’incontro Macron-Gentiloni di settembre. C’è tempo per ritrovare il filo della difesa e dell’industria navale europea. Può avere senso parlare di una Airbus navale. Per ora i fatti sono che l’Italia non aderisce all’unica Airbus esistente perché Leonardo (ex Finmeccanica) è legata alle strategie dell’industria militare statunitense e la Francia di Macron non dà segni di voler onorare un accordo firmato che prevede il controllo italiano del nuovo colosso, Fincantieri- Saint Nazaire.
MENTRE la cancelliera Angela Merkel si spende in prima persona contro la legislazione del Senato statunitense che ha esteso le sanzioni antirusse, in barba all’interesse di diversificazione delle fonti energetiche europee, dalla Francia arriva soltanto una flebile e rassegnata diatriba del Quai d’Orsay (a Roma, silenzio totale). Forse non è chiaro a Parigi che l’asse franco-tedesco è tollerabile per molti europei, nella misura in cui rafforza una politica comune. E che dire del netto rifiuto di una disponibilità dei porti europei nell’accoglienza agli immigranti, a spese non soltanto dell’Italia, ma della Grecia, della Spagna e della stessa Germania che, nei confronti del flusso migratorio siriano, ha fatto la sua parte? E, infine, la libera circolazione dei capitali vale sempre e per tutti o soltanto quando la Francia è acquirente? Vivendi sì e Fincantieri no?
Malgrado le simbologie europeiste del presidente, siamo ad una politica nazionalista che ci auguravamo sepolta, che ha portato la Francia ad essere (giustamente) colomba in Iraq e falco in Iran (ove le sanzioni di Washington stanno mettendo a rischio l’accordo antinucleare promosso da Obama) e, soprattutto, iniziatrice della dissennata guerra libica. Continuiamo a sperare in un recupero dell’europeismo di Macron, con la pazienza che va usata nei confronti di chi deve smaltire un passato nazionale più lungo e più glorioso del nostro prima di adattarsi al posto che gli compete nel mondo attuale.
Ogni governante italiano deve ancora fare i conti con il retaggio di una lontana seconda guerra mondiale che ai francesi ha regalato De Gaulle, a noi Badoglio. Una povera storia, la nostra, che contesta gli assi, i direttorii e persino gli incontri che ci escludono, ma favorevole a quelli che ci vedono presenti. Quella che Pietro Quaroni – ambasciatore d’un tempo – chiamava la politica della sedia. Il vero problema di chi si sente in bilico tra gli invitati e gli esclusi è quello di soggiacere alla continua tentazione di rivolgersi al più potente di turno per essere, come si dice a Roma, imbucato, offrendogli in cambio assicurazioni di buona creanza. Soltanto che non si tratta di posti a tavola ma di scelte di fondo della politica estera italiana.
Non è semplice, neanche con l’esempio di Trump, abituarsi al venir meno di un’egemonia statunitense a presidio della democrazia. In un mondo in lenta e pericolosa transizione verso una multipolarità non regolata. Per troppo tempo abbiamo scommesso sul padrone di casa al tavolo dei potenti, al punto di non accorgerci che è diventato soltanto un convitato di pietra.
DISPONIAMOdi un antidoto, la nostra politica europea; pronta, sentita, ma tuttora insufficiente. Non parlo soltanto del governo in carica. Prendiamo come esempio proprio la nostra politica militare e degli armamenti, non lontana dalla controversia Fincantieri- Saint Nazaire. Ricordiamo le dimissioni di Renato Ruggiero dal secon- do governo Berlusconi perché il cavaliere, per compiacere la Casa Bianca, aveva preferito gli Hercules agli A400M dell’Airbus tutta europea. Il nostro accodamento a Washington nella guerra in Afghanistan e nella seconda guerra del Golfo, in violazione del diritto internazionale e, quindi, dell’articolo XI della Costituzione, trasformando quei paesi, oltre che tombe di centinaia di migliaia di vittime civili, in altrettante fucine di terroristi con cui dobbiamo tuttora fare i conti. Per non parlare del conflitto libico in cui siamo stati trascinati - in questo caso dalla Francia e dal Regno Unito, ma in compagnia degli Stati Uniti - contro ogni nostro interesse.
Anche in politica estera il Paese è in attesa di una svolta. Siamo tra i pochi che potrebbero affermare, con tranquilla coscienza che il nostro primo interesse nazionale è quello di rafforzare un’Unione europea che abbiamo contribuito a fondare e che potrebbe restituire sovranità autentica a oltre 500 milioni di persone che, divisi in Stati piccoli e tra loro litigiosi, contano poco o nulla a livello globale. Oggi esistono le condizioni per dei passi avanti, con un Trump e un Putin che vorrebbero tornare ad una guerra fredda a spese dell’Europa. Ma se nemmeno prediche pur sincere in questo senso, dei Napolitano, degli Scalfari, persino dei Prodi non affrontano esplicitamente le contraddizioni e le debolezze del nostro europeismo, della politica estera, di una vocazione pacifica persa per strada, esse sono destinate a rimanere soltanto tali, nell’attesa che una nuova generazione di cittadini europei ed italiani prenda in mano le redini del Paese.
Contestiamo i direttorii e gli incontri che ci escludono, ma siamo poi favore voli a quelli che ci vedono presenti
In un mondo privo dell’egemonia americana, l’Italia non può più permettersi di cercare soltanto una grande potenza a cui accodarsi. Ma servono scelte drastiche e concrete, a cominciare dal caso Fincantieri