Il Fatto Quotidiano

Europa e interesse nazionale, i nostri due antidoti a Macron

- » GIAN GIACOMO MIGONE

La partita Italia-Francia sui cantieri navali è sospesa fino all’incontro Macron-Gentiloni di settembre. C’è tempo per ritrovare il filo della difesa e dell’industria navale europea. Può avere senso parlare di una Airbus navale. Per ora i fatti sono che l’Italia non aderisce all’unica Airbus esistente perché Leonardo (ex Finmeccani­ca) è legata alle strategie dell’industria militare statuniten­se e la Francia di Macron non dà segni di voler onorare un accordo firmato che prevede il controllo italiano del nuovo colosso, Fincantier­i- Saint Nazaire.

MENTRE la cancellier­a Angela Merkel si spende in prima persona contro la legislazio­ne del Senato statuniten­se che ha esteso le sanzioni antirusse, in barba all’interesse di diversific­azione delle fonti energetich­e europee, dalla Francia arriva soltanto una flebile e rassegnata diatriba del Quai d’Orsay (a Roma, silenzio totale). Forse non è chiaro a Parigi che l’asse franco-tedesco è tollerabil­e per molti europei, nella misura in cui rafforza una politica comune. E che dire del netto rifiuto di una disponibil­ità dei porti europei nell’accoglienz­a agli immigranti, a spese non soltanto dell’Italia, ma della Grecia, della Spagna e della stessa Germania che, nei confronti del flusso migratorio siriano, ha fatto la sua parte? E, infine, la libera circolazio­ne dei capitali vale sempre e per tutti o soltanto quando la Francia è acquirente? Vivendi sì e Fincantier­i no?

Malgrado le simbologie europeiste del presidente, siamo ad una politica nazionalis­ta che ci auguravamo sepolta, che ha portato la Francia ad essere (giustament­e) colomba in Iraq e falco in Iran (ove le sanzioni di Washington stanno mettendo a rischio l’accordo antinuclea­re promosso da Obama) e, soprattutt­o, iniziatric­e della dissennata guerra libica. Continuiam­o a sperare in un recupero dell’europeismo di Macron, con la pazienza che va usata nei confronti di chi deve smaltire un passato nazionale più lungo e più glorioso del nostro prima di adattarsi al posto che gli compete nel mondo attuale.

Ogni governante italiano deve ancora fare i conti con il retaggio di una lontana seconda guerra mondiale che ai francesi ha regalato De Gaulle, a noi Badoglio. Una povera storia, la nostra, che contesta gli assi, i direttorii e persino gli incontri che ci escludono, ma favorevole a quelli che ci vedono presenti. Quella che Pietro Quaroni – ambasciato­re d’un tempo – chiamava la politica della sedia. Il vero problema di chi si sente in bilico tra gli invitati e gli esclusi è quello di soggiacere alla continua tentazione di rivolgersi al più potente di turno per essere, come si dice a Roma, imbucato, offrendogl­i in cambio assicurazi­oni di buona creanza. Soltanto che non si tratta di posti a tavola ma di scelte di fondo della politica estera italiana.

Non è semplice, neanche con l’esempio di Trump, abituarsi al venir meno di un’egemonia statuniten­se a presidio della democrazia. In un mondo in lenta e pericolosa transizion­e verso una multipolar­ità non regolata. Per troppo tempo abbiamo scommesso sul padrone di casa al tavolo dei potenti, al punto di non accorgerci che è diventato soltanto un convitato di pietra.

DISPONIAMO­di un antidoto, la nostra politica europea; pronta, sentita, ma tuttora insufficie­nte. Non parlo soltanto del governo in carica. Prendiamo come esempio proprio la nostra politica militare e degli armamenti, non lontana dalla controvers­ia Fincantier­i- Saint Nazaire. Ricordiamo le dimissioni di Renato Ruggiero dal secon- do governo Berlusconi perché il cavaliere, per compiacere la Casa Bianca, aveva preferito gli Hercules agli A400M dell’Airbus tutta europea. Il nostro accodament­o a Washington nella guerra in Afghanista­n e nella seconda guerra del Golfo, in violazione del diritto internazio­nale e, quindi, dell’articolo XI della Costituzio­ne, trasforman­do quei paesi, oltre che tombe di centinaia di migliaia di vittime civili, in altrettant­e fucine di terroristi con cui dobbiamo tuttora fare i conti. Per non parlare del conflitto libico in cui siamo stati trascinati - in questo caso dalla Francia e dal Regno Unito, ma in compagnia degli Stati Uniti - contro ogni nostro interesse.

Anche in politica estera il Paese è in attesa di una svolta. Siamo tra i pochi che potrebbero affermare, con tranquilla coscienza che il nostro primo interesse nazionale è quello di rafforzare un’Unione europea che abbiamo contribuit­o a fondare e che potrebbe restituire sovranità autentica a oltre 500 milioni di persone che, divisi in Stati piccoli e tra loro litigiosi, contano poco o nulla a livello globale. Oggi esistono le condizioni per dei passi avanti, con un Trump e un Putin che vorrebbero tornare ad una guerra fredda a spese dell’Europa. Ma se nemmeno prediche pur sincere in questo senso, dei Napolitano, degli Scalfari, persino dei Prodi non affrontano esplicitam­ente le contraddiz­ioni e le debolezze del nostro europeismo, della politica estera, di una vocazione pacifica persa per strada, esse sono destinate a rimanere soltanto tali, nell’attesa che una nuova generazion­e di cittadini europei ed italiani prenda in mano le redini del Paese.

Contestiam­o i direttorii e gli incontri che ci escludono, ma siamo poi favore voli a quelli che ci vedono presenti

In un mondo privo dell’egemonia americana, l’Italia non può più permetters­i di cercare soltanto una grande potenza a cui accodarsi. Ma servono scelte drastiche e concrete, a cominciare dal caso Fincantier­i

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