Sud summertime, la vita altrove che raccontavano i nostri migranti
Sud summertime, Caro Coen, altro che Milano. Noi figli del marciapiede, andavamo al paese dai nonni. Ferragosto senza mare e senza vacanze, lusso inconcepibile per chi strappava la vita in un cantiere edile, una fabbrica, un ufficio del Comune, il tavolo di un bar dove maledire i giorni da disoccupato cronico. Il paese con i suoi vicoli e le case basse di pietra. Gli odori dei peperoni arrostiti, le voci di Sergio Bruni e di altri fini dicitori della canzone napoletana che narravano di “Carmele” e di vicoli neri che non avevano mai fine. E il caldo. Anche in quei lontani anni Sessanta faceva caldo, non c’erano i condizionatori e nessuno si lamentava. I giornali, che allora venivano comprati e pure letti, non avevano titoloni sui vari Lucifero e Caronte. I vecchi la mattina uscivano in canottiera. Le ore del dopopranzo (la terribile e sensuale controra ) erano dedicate al riposo nell’attesa della frescura serale. Una birra gelataal bar (per i giovanotti), un gelato per i più piccoli.
NELLE GIORNATE che precedevano il Ferragosto arrivavano quelli che stavano fuori, gli emigranti. Vivevano a Torino, per la Fiat, o all’estero, e tornavano per trovare i parenti e onorare la Madonna. A Sud c’è sempre una Madonna, nere, bianche e Vergini.
Che racconti, caro Coen. Bastava sedersi al bar e viaggiavi. Ti raccontavano di Torino e della fabbrica, di luoghi all’estero che avevi sentito nominare solo dalla maestra di geografia. Inghilterra, Australia, Belgio, Francia. Avevano un loro particolare slang, gli emigranti che tornavano per poche settimane. Quando dovevano indicare il luogo dove la vita li aveva destinati, dicevano “là”. “Là” era tutto più bello, tutto funzionava, tutto era meraviglioso. Solo anni dopo ho capito che quell’esaltare periferie miserabili, fabbriche e cantieri dove ti succhiavano il sangue per due lire, era pieno di nostalgia e rabbia. Nessuno li aveva aiutati a casa loro e loro erano partiti. Migranti per fame.