SE IL TERRORE VINCE È ANCHE COLPA NOSTRA
Ètoccato di nuovo alla Spagna e, come sempre, i leader di tutto il mondo sono giustamente inorriditi. Sono anche spaventati, perché a ogni attacco saltano le promesse di sicurezza e con esse rischiano di saltare le loro poltrone. Le misure di prevenzione pubblicizzate “dopo” ogni attacco si rivelano inefficaci in quello successivo. I controlli a tappeto sono dispersivi e quelli
random hanno maglie troppo larghe. Le polizie europee sono allo stremo. Non hanno obiettivi certi su cui concentrare forze e risorse. I Servizi segreti non collaborano fra loro e le loro segnalazioni sono trattate con sufficienza. I leader invocano sempre la collaborazione dei cittadini, ma anche loro dovrebbero fare qualcosa.
I media dovrebbero informare e non deformare i fatti. Non basta condannare o esortare o attribuire responsabilità a organizzazioni evanescenti. a un ventennio, il fenomeno terroristico è stato amplificato a bella posta perché incutesse paura aprendo così le porte e i cordoni della borsa alle misure di eccezione (che vanificano le leggi esistenti) e a quelle di emergenza (che eludono i controlli contabili e di merito). Non si è badato al fatto che l’amplificazione diventava strumentale al successo del terrorismo stesso e gli ideologhi del terrore si sono visti rappresentare nelle stanze dei bottoni da chi proponeva l’antiterrorismo come lo specchio del terrorismo. I finanziatori hanno versato fiumi di denaro nello stesso bacino di chi alimentava il terrorismo, le motivazioni ispirate ai valori occidentali e alla razionalità sono diventate estremiste, xenofobe e irrazionali. In questa situazione si può continuare a contrastare il terrorismo per anni senza estirparlo.
Anche la resistenza al terrorismo è un concetto fuorviante. Si può resistere alla tentazione di dare il terrorismo per scontato, di cedere e soggiacere al terrorismo. Ma quando si tratta di sopportare i continui bombardamenti mediatici, o la sequenza di episodi di terrorismo vicino omolto lontano da casa propria, la resistenza è difficile e anche inutile. Ogni resistenza ha un punto di rottura e lo scopo politico del terrorismo è proprio farci arrivare alla rottura. Molto più efficace è la resilienza: è la capacità di sopportare le sollecitazioni assorbendone l’energia senza deformarsi per poi restituire energia positiva. È il contrario della fragilità. Non è l’accettazione fatalistica delle avversità. Non implica forza fisica, ma fortezza.
Anche il terrorismo, come la guerra, ha il suo continuume proprio la “guerra al terrore” dichiarata nel 2001 ha dimostrato che non c’è potenza o coalizione di potenza che, ancora oggi, sia preparata a fronteggiare alcunché di transnazionale e trasversale: dai movimenti pacifisti, ecologisti, migratori e finanziari a quelli terroristici e criminali. Il terrorismo può cambiare gli strumenti, ma il fine politico è l’unico parametro che lo differenzia dall’atto criminale. Una bombola di gas, un camion, un furgone a noleggio sono oggi armi di distruzione di massa. Il fine politico è però collegato a situazioni concrete e quindi diverse da Paese a Paese mentre la “lotta globale al terrore” non affronta alcun problema politico particolare.
Ogni Paese ha trascurato la dimensione interna dei problemi politico-sociali di consenso e convivenza per delegare il contrasto al terrorismo a una improbabile dimensione globale. Fatalmente ogni nazione si trova emotivamente coinvolta in una spirale di paura per ciò che può avvenire trascurando ciò che realmente sta già succedendo. In questo meccanismo la diffusione delle informazioni sugli attacchi terroristici ha una grande responsabilità. Non si cercano più fatti concreti ma si sollecitano emozioni. Assistere alle trasmissioni sugli attentati in diretta è come subire un altro attacco terroristico. Ognuno s’improvvisa reporter e riporta solo paura, caos, incapacità di descrivere altro che le proprie emozioni. E il bambino di sei anni che per caso ascolta e vede non è né indifferente al concentrato di paura che annunciatrici e reporter scaricano prima ancora di sapere cosa è successo e dove.
A Barcellona, per ore si parla di un furgone, anzi due, che hanno invaso la zona pedonale della Rambla uccidendo molti passanti. Si parla di attentatori arrestati, di altri asserragliati in un bar turco con ostaggi. Ma i fatti nudi e crudi sono diversi. L’autista del furgone killer è ancora in fuga. Sembra che abbia ucciso a coltellate un automobilista per rubargli la macchina. Il secondo furgone non era a Barcellona e il bar turco con annessi terroristi e ostaggi è scomparso dai resoconti. L’unico arrestato è il fratello del presunto attentatore che si è recato alla polizia per denunciare il fratello che gli avrebbe rubato i documenti d’identità per noleggiare il furgone. La polizia non gli crede e lo arresta. Giustamente. Tuttavia, mentre tutto il mondo politico e dell’informazione valuta l’attacco di Barcellona come un attacco al cuore dell’Europa e della nostra civiltà, i fatti rendono soltanto l’evidenza della pazzia fanatica di un diciottenne forse incitato da un fratello “faina” 28enne. È un po’ poco per mobilitare le coscienze mondiali ed è anche imbarazzante per le forze dell’ordine che conoscevano benissimo i due fratelli.
E allora compaiono i collegamenti, inizialmente trascurati, con un’esplosione di bombole di gas avvenuta il giorno prima a Alcanar a 219 km a sud di Barcellona (sempre in Catalogna, alla vigilia di un referendum controverso). Compaiono altri due arrestati: un marocchino di Ceuta e uno di Melilla ritenuti coinvolti nella fabbricazione di ordigni esplosivi nella casa di Alcanar. Ma anche questo collegamento è vago e, soprattutto, la provenienza dei due arrestati dalle enclavi spagnole in Marocco chiuse da recinzioni pagate dall’Unione europea è un imbarazzante indizio di matrice politica e insurrezionale di gran parte del cosiddetto terrorismo islamico in Spagna. E allora compare alle due di notte il secondo attentato a Cambrils, a 118 km a sud di Barcellona, che viene sventato dalla polizia e in cui vengono uccisi cinque “sospetti” terroristi sul punto di fare un attentato kamikaze con esplosivo che non avevano. Anche questo è un episodio ambiguo che non sembra collegabile a quello di Barcellona, ma sufficiente ad alimentare la paura di una centrale del terrore in Spagna e in Europa. Tutto finalmente può rientrare nel quadro da tempo costruito del terrorismo transnazionale e internazionale islamista contro il quale la nostra civiltà si deve misurare da qui all’eternità. E allora gli stessi che ti hanno scaraventato addosso tutto il loro bagaglio audiovisivo di strumenti per terrorizzare, ti raccomandano di non cedere alla paura.
Nel frattempo, però, il bambino chiede: “Barcellona è vicina a Roma? Questi cattivi ci sono anche a Roma?”. È serio e spaventato, ed è l’immagine più angosciante di tutta la gente spaventata che vuole una rassicurazione inesistente. Una menzogna.