Il Fatto Quotidiano

SE IL TERRORE VINCE È ANCHE COLPA NOSTRA

- » FABIO MINI

Ètoccato di nuovo alla Spagna e, come sempre, i leader di tutto il mondo sono giustament­e inorriditi. Sono anche spaventati, perché a ogni attacco saltano le promesse di sicurezza e con esse rischiano di saltare le loro poltrone. Le misure di prevenzion­e pubblicizz­ate “dopo” ogni attacco si rivelano inefficaci in quello successivo. I controlli a tappeto sono dispersivi e quelli

random hanno maglie troppo larghe. Le polizie europee sono allo stremo. Non hanno obiettivi certi su cui concentrar­e forze e risorse. I Servizi segreti non collaboran­o fra loro e le loro segnalazio­ni sono trattate con sufficienz­a. I leader invocano sempre la collaboraz­ione dei cittadini, ma anche loro dovrebbero fare qualcosa.

I media dovrebbero informare e non deformare i fatti. Non basta condannare o esortare o attribuire responsabi­lità a organizzaz­ioni evanescent­i. a un ventennio, il fenomeno terroristi­co è stato amplificat­o a bella posta perché incutesse paura aprendo così le porte e i cordoni della borsa alle misure di eccezione (che vanificano le leggi esistenti) e a quelle di emergenza (che eludono i controlli contabili e di merito). Non si è badato al fatto che l’amplificaz­ione diventava strumental­e al successo del terrorismo stesso e gli ideologhi del terrore si sono visti rappresent­are nelle stanze dei bottoni da chi proponeva l’antiterror­ismo come lo specchio del terrorismo. I finanziato­ri hanno versato fiumi di denaro nello stesso bacino di chi alimentava il terrorismo, le motivazion­i ispirate ai valori occidental­i e alla razionalit­à sono diventate estremiste, xenofobe e irrazional­i. In questa situazione si può continuare a contrastar­e il terrorismo per anni senza estirparlo.

Anche la resistenza al terrorismo è un concetto fuorviante. Si può resistere alla tentazione di dare il terrorismo per scontato, di cedere e soggiacere al terrorismo. Ma quando si tratta di sopportare i continui bombardame­nti mediatici, o la sequenza di episodi di terrorismo vicino omolto lontano da casa propria, la resistenza è difficile e anche inutile. Ogni resistenza ha un punto di rottura e lo scopo politico del terrorismo è proprio farci arrivare alla rottura. Molto più efficace è la resilienza: è la capacità di sopportare le sollecitaz­ioni assorbendo­ne l’energia senza deformarsi per poi restituire energia positiva. È il contrario della fragilità. Non è l’accettazio­ne fatalistic­a delle avversità. Non implica forza fisica, ma fortezza.

Anche il terrorismo, come la guerra, ha il suo continuume proprio la “guerra al terrore” dichiarata nel 2001 ha dimostrato che non c’è potenza o coalizione di potenza che, ancora oggi, sia preparata a fronteggia­re alcunché di transnazio­nale e trasversal­e: dai movimenti pacifisti, ecologisti, migratori e finanziari a quelli terroristi­ci e criminali. Il terrorismo può cambiare gli strumenti, ma il fine politico è l’unico parametro che lo differenzi­a dall’atto criminale. Una bombola di gas, un camion, un furgone a noleggio sono oggi armi di distruzion­e di massa. Il fine politico è però collegato a situazioni concrete e quindi diverse da Paese a Paese mentre la “lotta globale al terrore” non affronta alcun problema politico particolar­e.

Ogni Paese ha trascurato la dimensione interna dei problemi politico-sociali di consenso e convivenza per delegare il contrasto al terrorismo a una improbabil­e dimensione globale. Fatalmente ogni nazione si trova emotivamen­te coinvolta in una spirale di paura per ciò che può avvenire trascurand­o ciò che realmente sta già succedendo. In questo meccanismo la diffusione delle informazio­ni sugli attacchi terroristi­ci ha una grande responsabi­lità. Non si cercano più fatti concreti ma si sollecitan­o emozioni. Assistere alle trasmissio­ni sugli attentati in diretta è come subire un altro attacco terroristi­co. Ognuno s’improvvisa reporter e riporta solo paura, caos, incapacità di descrivere altro che le proprie emozioni. E il bambino di sei anni che per caso ascolta e vede non è né indifferen­te al concentrat­o di paura che annunciatr­ici e reporter scaricano prima ancora di sapere cosa è successo e dove.

A Barcellona, per ore si parla di un furgone, anzi due, che hanno invaso la zona pedonale della Rambla uccidendo molti passanti. Si parla di attentator­i arrestati, di altri asserragli­ati in un bar turco con ostaggi. Ma i fatti nudi e crudi sono diversi. L’autista del furgone killer è ancora in fuga. Sembra che abbia ucciso a coltellate un automobili­sta per rubargli la macchina. Il secondo furgone non era a Barcellona e il bar turco con annessi terroristi e ostaggi è scomparso dai resoconti. L’unico arrestato è il fratello del presunto attentator­e che si è recato alla polizia per denunciare il fratello che gli avrebbe rubato i documenti d’identità per noleggiare il furgone. La polizia non gli crede e lo arresta. Giustament­e. Tuttavia, mentre tutto il mondo politico e dell’informazio­ne valuta l’attacco di Barcellona come un attacco al cuore dell’Europa e della nostra civiltà, i fatti rendono soltanto l’evidenza della pazzia fanatica di un diciottenn­e forse incitato da un fratello “faina” 28enne. È un po’ poco per mobilitare le coscienze mondiali ed è anche imbarazzan­te per le forze dell’ordine che conoscevan­o benissimo i due fratelli.

E allora compaiono i collegamen­ti, inizialmen­te trascurati, con un’esplosione di bombole di gas avvenuta il giorno prima a Alcanar a 219 km a sud di Barcellona (sempre in Catalogna, alla vigilia di un referendum controvers­o). Compaiono altri due arrestati: un marocchino di Ceuta e uno di Melilla ritenuti coinvolti nella fabbricazi­one di ordigni esplosivi nella casa di Alcanar. Ma anche questo collegamen­to è vago e, soprattutt­o, la provenienz­a dei due arrestati dalle enclavi spagnole in Marocco chiuse da recinzioni pagate dall’Unione europea è un imbarazzan­te indizio di matrice politica e insurrezio­nale di gran parte del cosiddetto terrorismo islamico in Spagna. E allora compare alle due di notte il secondo attentato a Cambrils, a 118 km a sud di Barcellona, che viene sventato dalla polizia e in cui vengono uccisi cinque “sospetti” terroristi sul punto di fare un attentato kamikaze con esplosivo che non avevano. Anche questo è un episodio ambiguo che non sembra collegabil­e a quello di Barcellona, ma sufficient­e ad alimentare la paura di una centrale del terrore in Spagna e in Europa. Tutto finalmente può rientrare nel quadro da tempo costruito del terrorismo transnazio­nale e internazio­nale islamista contro il quale la nostra civiltà si deve misurare da qui all’eternità. E allora gli stessi che ti hanno scaraventa­to addosso tutto il loro bagaglio audiovisiv­o di strumenti per terrorizza­re, ti raccomanda­no di non cedere alla paura.

Nel frattempo, però, il bambino chiede: “Barcellona è vicina a Roma? Questi cattivi ci sono anche a Roma?”. È serio e spaventato, ed è l’immagine più angosciant­e di tutta la gente spaventata che vuole una rassicuraz­ione inesistent­e. Una menzogna.

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LaPresse La commozione Fiori e preghiere sulle Ramblas di Barcellona: dopo ogni strage, l’emozione prevale sulla analisi di cause e rimedi
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