UNIVERSITÀ, QUESTO SCIOPERO È UN DOVERE
Lo sciopero dei professori universitari programmato per il prossimo autunno – con la sospensione degli esami di profitto fra 28 agosto e 31 dicembre – sta suscitando numerose polemiche perché interpretato come una rivendicazione corporativa di lavoratori privilegiati, con stipendi elevati. La decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il ministero per avere riconosciuti gli scatti stipendiali fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito.
UN RICERCATORE u ni ve r si ta ri o con venti anni di anzianità guadagna poco più di 2.000 euro netti mensili mentre un suo collega di altri Paesi europei almeno cinque volte tanto. I fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universitarie meridionali, che prosegue da dieci anni. L’acquisto di libri, l’abbonamento a riviste, la partecipazione a Convegni nazionali e internazionali – tutto ciò che concorre a produrre una buona qualità della ricerca – va quindi a gravare sullo stipendio, con la conseguenza che si acquistano meno libri, si leggono meno articoli scientifici, si partecipa a un numero minore di convegni e, dunque, si fa peggiore ricerca.
Perché questo è un problema anche e so- prattutto per gli studenti e le loro famiglie? Il punto essenziale che legittima lo sciopero riguarda la necessaria saldatura fra ricerca e didattica. Nelle condizioni date, e soprattutto nelle sedi meridionali, fare ricerca di buona qualità (che significa appunto avere accesso a ricerche prodotte in altre sedi, soprattutto internazionali) è sostanzialmente impossibile, data l’assenza di fondi e appunto il blocco degli stipendi. Per quanto possa sembrare inverosimile per chi non lavora in università, l’acquisto di un libro o l’abbonamento a una rivista scientifica è un lusso. Ciò ha ripercussioni immediate sulla qualità della didattica, giacché ricerca scientifica di bassa qualità produce didattica di bassa qualità. A ciò si aggiunge l’estrema difficoltà – per stringenti vincoli di bilancio, niente affatto necessari – di re- clutare giovani ricercatori, in una condizione, peraltro, nella quale sono possibili solo contratti a tempo determinato. Il progressivo innalzamento dell’età media del corpo docente incide su ricerca e didattica.
LO SCIOPERO è stato proclamato dal “Movimento per la dignità della docenza universitaria”, nato sulla base del disprezzo o dell’indifferenza dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni nei confronti della cultura e della conoscenza scientifica. È innanzitutto una questione di dignità. E una sacrosanta rivendicazione salariale.
Gli studenti e le loro famiglie dovrebbero essere consapevoli che, nelle condizioni date, si studia e si studierà sempre peggio, che la laurea darà sempre minori opportunità di accesso al mercato del lavoro, che – in un Paese che è stato giustamente definito “non per giovani”– il futuro delle giovani generazioni, almeno per quella parte che è motivata allo studio, è l’emigrazione. E che anche emigrando non si è affatto certi di trovare un lavoro coerente con la qualifica acquisita (non sono affatto infrequenti casi di giovani laureati assunti come camerieri in altri Paesi europei) anche perché, nella competizione globale, le università italiane – viste dall’estero – per- dono costantemente reputazione. Si tratta di fenomeni che già stiamo sperimentando, da anni, con intensità crescente.
È ormai evidente che le politiche formative in Italia sono calibrate sulla base della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane. In questa logica, le università meridionali vengono penalizzate: le imprese meridionali – di piccole dimensioni, poco innovative – non hanno bisogno né di forza lavoro qualificata né di ricerca di base e applicata.
Non si spiegherebbe diversamente la scelta di ridurre la spesa pubblica, in regime di austerità, con la massima intensità proprio nel settore della formazione e nell’area del Paese che più soffre. E non si spiegherebbero le numerose dichiarazioni di autorevoli responsabili delle politiche per la formazione che vanno nella direzione di distinguere sedi researche teaching, dove nelle seconde si fa esclusivamente didattica.
LO SCIOPEROdel prossimo autunno ha valore innanzitutto simbolico ed è una forma minimale di conflitto. Mapuò servire. A condizione che l’università torni al centro del dibattito pubblico e a condizione che il governo chiarisca finalmente qual è la sua linea politica nel settore della formazione: se intende progressivamente smantellarlo, privatizzarlo, spostarlo quasi interamente al Nord, come sembra di capire, o se è disponibile a far marcia indietro rispetto alle devastanti politiche dell’ultimo decennio.