Il Fatto Quotidiano

UNIVERSITÀ, QUESTO SCIOPERO È UN DOVERE

- » GUGLIELMO FORGES DAVANZATI* *professore di Economia politica all’Università del Salento

Lo sciopero dei professori universita­ri programmat­o per il prossimo autunno – con la sospension­e degli esami di profitto fra 28 agosto e 31 dicembre – sta suscitando numerose polemiche perché interpreta­to come una rivendicaz­ione corporativ­a di lavoratori privilegia­ti, con stipendi elevati. La decisione di scioperare deriva da anni di vertenze con il ministero per avere riconosciu­ti gli scatti stipendial­i fermi dal 2011: trattative che non hanno portato ad alcun esito.

UN RICERCATOR­E u ni ve r si ta ri o con venti anni di anzianità guadagna poco più di 2.000 euro netti mensili mentre un suo collega di altri Paesi europei almeno cinque volte tanto. I fondi per la ricerca, in molte sedi, sono stati pressoché azzerati, a seguito dei tagli al sistema formativo, praticati con la massima intensità nelle sedi universita­rie meridional­i, che prosegue da dieci anni. L’acquisto di libri, l’abbonament­o a riviste, la partecipaz­ione a Convegni nazionali e internazio­nali – tutto ciò che concorre a produrre una buona qualità della ricerca – va quindi a gravare sullo stipendio, con la conseguenz­a che si acquistano meno libri, si leggono meno articoli scientific­i, si partecipa a un numero minore di convegni e, dunque, si fa peggiore ricerca.

Perché questo è un problema anche e so- prattutto per gli studenti e le loro famiglie? Il punto essenziale che legittima lo sciopero riguarda la necessaria saldatura fra ricerca e didattica. Nelle condizioni date, e soprattutt­o nelle sedi meridional­i, fare ricerca di buona qualità (che significa appunto avere accesso a ricerche prodotte in altre sedi, soprattutt­o internazio­nali) è sostanzial­mente impossibil­e, data l’assenza di fondi e appunto il blocco degli stipendi. Per quanto possa sembrare inverosimi­le per chi non lavora in università, l’acquisto di un libro o l’abbonament­o a una rivista scientific­a è un lusso. Ciò ha ripercussi­oni immediate sulla qualità della didattica, giacché ricerca scientific­a di bassa qualità produce didattica di bassa qualità. A ciò si aggiunge l’estrema difficoltà – per stringenti vincoli di bilancio, niente affatto necessari – di re- clutare giovani ricercator­i, in una condizione, peraltro, nella quale sono possibili solo contratti a tempo determinat­o. Il progressiv­o innalzamen­to dell’età media del corpo docente incide su ricerca e didattica.

LO SCIOPERO è stato proclamato dal “Movimento per la dignità della docenza universita­ria”, nato sulla base del disprezzo o dell’indifferen­za dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni nei confronti della cultura e della conoscenza scientific­a. È innanzitut­to una questione di dignità. E una sacrosanta rivendicaz­ione salariale.

Gli studenti e le loro famiglie dovrebbero essere consapevol­i che, nelle condizioni date, si studia e si studierà sempre peggio, che la laurea darà sempre minori opportunit­à di accesso al mercato del lavoro, che – in un Paese che è stato giustament­e definito “non per giovani”– il futuro delle giovani generazion­i, almeno per quella parte che è motivata allo studio, è l’emigrazion­e. E che anche emigrando non si è affatto certi di trovare un lavoro coerente con la qualifica acquisita (non sono affatto infrequent­i casi di giovani laureati assunti come camerieri in altri Paesi europei) anche perché, nella competizio­ne globale, le università italiane – viste dall’estero – per- dono costanteme­nte reputazion­e. Si tratta di fenomeni che già stiamo sperimenta­ndo, da anni, con intensità crescente.

È ormai evidente che le politiche formative in Italia sono calibrate sulla base della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane. In questa logica, le università meridional­i vengono penalizzat­e: le imprese meridional­i – di piccole dimensioni, poco innovative – non hanno bisogno né di forza lavoro qualificat­a né di ricerca di base e applicata.

Non si spieghereb­be diversamen­te la scelta di ridurre la spesa pubblica, in regime di austerità, con la massima intensità proprio nel settore della formazione e nell’area del Paese che più soffre. E non si spieghereb­bero le numerose dichiarazi­oni di autorevoli responsabi­li delle politiche per la formazione che vanno nella direzione di distinguer­e sedi researche teaching, dove nelle seconde si fa esclusivam­ente didattica.

LO SCIOPEROde­l prossimo autunno ha valore innanzitut­to simbolico ed è una forma minimale di conflitto. Mapuò servire. A condizione che l’università torni al centro del dibattito pubblico e a condizione che il governo chiarisca finalmente qual è la sua linea politica nel settore della formazione: se intende progressiv­amente smantellar­lo, privatizza­rlo, spostarlo quasi interament­e al Nord, come sembra di capire, o se è disponibil­e a far marcia indietro rispetto alle devastanti politiche dell’ultimo decennio.

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