L’odio sul web non è soltanto questione di donne
“Per la maggior parte l’ignoranza e i loro comportamenti sventati derivano senza dubbio dal fatto che, fino a pochissimo tempo fa, le donne non erano altro che schiave della pentola”
(da “Il buon vino del signor Weston” di Theodore F. Powys, Adelphi, 2017, pag. 54)
Se non si chiamasse Laura Boldrini e non fosse la presidente della Camera, avrebbe riscosso uguale risonanza la sua decisione di denunciare chi la offende sul web? I media e l’opinione pubblica avrebbero dedicato altrettanta attenzione alla questione? Se si fosse trattato di Maria Bianchi o di Lucia Rossi, il problema degli stalker online sarebbe riuscito – come si suol dire – a “bucare il video”? Ha fatto doppiamente bene, dunque, la presidente Boldrini ad annunciare pubblicamente questa intenzione. Era un suo diritto individuale e un suo dovere istituzionale: per se stessa e per tante altre donne che subiscono la violenza virtuale, senza ottenere la medesima “audience”. E ha fatto bene anche Selvaggia Lucarelli – su questo giornale – a darle ampiamente ragione, al di là della stima o della simpatia personale.
Ma la questione di cui stiamo parlando non riguarda soltanto le donne. In primo luogo, tocca senz’altro la loro condizione, lo “status” d’inferiorità in cui le ha relegate per secoli l’incultura maschilista, una pretesa e assurda subordinazione al “potere” dell’altro sesso. E tuttavia, l’odio diffuso quotidianamente sul web coinvolge tutti noi, inquina l’intera società contemporanea, compromette la base della convivenza civile.
ERA STATA LA STESSA presidente Boldrini a prendere qualche anno fa l’iniziativa di istituire una commissione di studio, affidata alla guida di Stefano Rodotà, per elaborare un “Codice di Internet”. E all’inizio dell’anno, aveva suscitato qualche polemica un’intervista in cui il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, invocava l’introduzione di regole europee in modo da disciplinare meglio questa materia. Ma, per risolvere in buona parte il problema, basterebbe applicare intanto un principio fondamentale dettato a suo tempo proprio da Rodotà: ciò che è illegale offline, dev’essere illegale anche online.
Se uno offende o diffama sulla carta stampata o con altri mezzi, insomma, commette il medesimo reato se utilizza la rete. È recente la notizia che Rasul Bisultanov, omonimo dell’assassino ceceno che ha massacrato il giovane italiano nella discoteca vicino a Barcellona, vuole fare causa a chi lo sta insultando sui “social”.
Le regole e gli strumenti per difendersi, dunque, già esistono e vanno usati fino in fondo. Resta il problema dell’anonimato, dietro cui spesso si nascondono i molestatori via web, per evitare così di essere identificati.
Ma anche qui si tratta di applicare una regola semplice ed elementare, per cui chi partecipa a un “social network” dev’essere sempre riconoscibile: magari attraverso una formula analoga a quella della “lettera firmata” adottata da alcuni giornali, per cui l’autore può anche chiedere di rimanere anonimo, ma chi pubblica o diffonde il testo deve conoscerne l’identità.
Altrimenti, al di là dei diritti delle singole persone, è la stessa Rete che rischia di veder compromessa la propria funzionalità e credibilità. L’anonimato è lo scudo dell’irresponsabilità. Non c’è giorno, infatti, che qualche personaggio dell’informazione o dello spettacolo non abbandoni il web per questo motivo. E il presidio democratico dei “social”, nella moderna società della comunicazione, non può essere pregiudicato dall’intrusione e dal bullismo degli stalker.