Dunkirk: così vola il cinema di Nolan, libero dalle parole
dei film più attesi del 2017 in Italia dal 31 agosto, la storia del drammatico ritorno a casa di 338 mila soldati inglesi nel 1940. Non c’è sangue ma una grandiosa colonna sonora di Hans Zimmer
Si sa già molto di Dunkirk, il decimo film di Christopher Nolan. È andato bene al botteghino in America e tra dieci giorni, il 31 agosto, arriverà anche da noi, buoni ultimi. Obiettivo patrio: dare il là alla stagione cinematografica della riscossa, dopo un’annata pesta. Con i precedenti, da Memento a Inception, da Following a Interstellar, passando per la primaria trilogia del Cavaliere oscuro e quello che è il suo film più riuscito, The Prestige, Nolan s’è guadagnato fama di pubblico e stima di critica. E plauso di studio, Warner Bros, che concede solo a lui e Clint Eastwood il sommo privilegio per un regista a Hollywood: il final cut. Autorialità e commerciabilità, poetica e sistema. Confermando l’inclinazione per le didascalie emendabili, del suo modus operandi aveva informato il titolo di un film, Inception. Vale a dire, con una battuta messa in bocca al Mister Saito di Ken Watanabe, “se si può rubare un’idea dalla mente di un altro, perché non se ne può innestare una?”.
È QUESTA la cifra ideologica, l’intorno poetico, il vademecum stilistico di Chris Nolan: innovare dall’interno l’agenda e l’enciclopedia, il genere e la storia, inserendo l’anello che non tiene, lo scarto, ovvero il dissonante e l’alieno. Dopo aver innestato di sé Batman e Joker, prestigiatori ed “estrattori”, scienziati ed astronauti, Dunkirk lo mette per la prima volta al cospetto della Storia edella verità storica: il titolo è l’esonimo inglese di Dunkerque, la cittadina portuale nel nord della Francia che tra il 26 maggio e il 4 giugno del 1940 fu teatro dell’Operazione Dynamo, l’evacuazione navale del corpo di spedizione britannico e dei resti dell’esercito tran- salpino accerchiati dalle truppe tedesche.
Nolan ne dà risoluta contezza alternando e incrociando, interlacciando e sovrapponendo tre storie, tre setting e altrettanti lassi temporali: il molo, per una settimana; il mare, per un giorno; il cielo, per un’ora.
Badate, lo fa manipolandoli e spacciandoli per lassi equivalenti, tempi analoghi.
È un escamotage che in Me- mento aveva già portato alle estreme conseguenze: volendo banalizzare, e perfino pervertire, il teorico Gilles Deleuze, Nolan ha fatto dell’immagine-tempo l’immagine-movimento del suo cinema. L’approdo è di una qualche importanza, e fa il paio con un’altra singolar tenzone del suo audiovisivo: l’elevazione alla massima potenza sia dell’audio che del video, degna dell’artigiano peritissimo, del filosofo empiricissimo che è.
Se l’esegesi corrente di Dunkirk esalta con attitudine quasi pornografica il formato 65mm e Imax – sono peculiarità esperibili solo nei Paesi civilizzati, noi ne siamo esclusi – la grandeur è invero quella sonora: il preclaro Hans Zimmer trova il vertice della carriera, facendo di suoni e rumori un personaggio principale, il termometro emozionale stesso. Prima del piano e degli archi che verranno, la partitura è clangore bellico, apocalisse umana, disastro ineluttabile: colonna immanente, pesante, no future. L’occhio allarga, l’orecchio abbassa: sono due destini che si uniscono, l’ampiezza del panorama e la gravità della situazione. Un maglio che ci percuote senza misericordia. Qui – sebbene non inedito: ricordate Espiazione di Joe Wright? – Nolan è geniale, perché alloca al nostro qui e ora, alla nostra pura e mera sensorialità l’immersione e la comprensione del film. Non ci sono nemici – svastiche non se ne vedono, nazisti non si dicono – e non ci sono troppe spiegazioni, perché l’importante è essere, noi spettatori, lì dentro oggi come allora. Lettere da Iwo Jima di Eastwood faceva storie di Storia, Salvate il sol- dato Ryan di Spielberg pathos di Storia, qui la Storia si fa sensazione: attuale, e perfino anti-storica. Non c’è da stupirsi, è la ratio stessa del suo cinema: stavolta sceneggiatore solista, senza l’abituale fratello Jonathan, Nolan ribadisce tutta la sua debolezza narrativa. Quando scrive, il rischio di cadere nella didascalia ridondante e sciocca è sensibile. Forte dell’accuratezza scenografica e rumoristica della ricostruzione, la visione ha sempre la meglio sul racconto: in un’epoca di pervasivo e “minchionissimo” storytelling, non è detto sia un demerito. Però qualcosa si paga. Non sono mancati rimbrotti, distinguo e accuse: i francesi vigliacchi, sciacalli o elusi, gli indiani (oggi perlopiù pachistani) e i nordafricani elisi, Nolan s’è sentito le sue, e l’addebito principale riscontra in quella Dynamo l’odierna operazione Brexit, con il gradimento di Nigel Farage per prova provata. Non se n’è curato, Nolan: nato nel 1970 a Londra, la sua è l’ultima generazione ad avere chiaro, e orgoglioso, quel che fu Dunkirk, e se spettacolarmente il film è per tutti, ideologicamente sottintende l’acronimo di una famosa etichetta d’abbigliamento hip–hop, Fubu, ovvero “For Us, By Us”, per noi da noi. Inglesi.
LE ESCLUSIONI di indiani, francesi e compagnia bella non sono dolose, ma scontate: britannici, La Manica, la Gran Bretagna, e nulla più. Dunque, il molo di Dunkerque, in cui inglesi, francesi, canadesi e altri aspettano sotto il fuoco tedesco di essere reimbarcati alla volta dell’Inghilterra, dista solo 26 miglia. Winston Churchill vorrebbe indietro tra i 30mila e i 45mila soldati, non osa chiederne di più, ma alla fine saranno 338mila. Un successo nella sconfitta, ma alla Camera dei Comuni Churchill lamenterà “il colossale disa- stro militare”. A soccorrere i fanti una flotta di navi da guerra e, soprattutto, imbarcazioni da diporto, panfili e barchini requisiti dalla marina militare o pilotati dai civili stessi. Nei cieli la lotta è tra la Luftwaffe e la Raf, sebbene l’ordine prevalente per gli inglesi fosse di non ingaggiare: tre Spitfire affrontano gli Heinkel tedeschi per scongiurare danni ai vascelli di Sua Maestà. È qui, nei cieli, che calmierando il videogame e pure l’epos Nolan trova il suo cinema in purezza. Al molo si sopravvive sotto lo sguardo – l’unica star intesa da Nolan – del comandante Kenneth Branagh, in mare si pende dalle labbra del saggio Mark Rylance, ma è sullo Spitfire di Tom Hardy che Dunkirkprende ossigeno e mozza il fiato. Per l’ennesima volta – dopo il Bane di Dark Knight Rises (Il cavaliere oscuro – Il ritorno) eMad Max: Fury Road– con una maschera-respiratore a occultarne il viso, Hardy recita solo con gli occhi, e l’ausilio di poche battute peraltro difficilmente intellegibili, e regala una prova di superba economia, magnificente semplicità: viene, vede, vince. Si consegnerà infine alla terra, ma solo dopo averci (di)mostrato dove osano le aquile, e dove può volare il cinema di Nolan. S’intende, libero dall’obbligo di parola, narrazione e pathos. Esperienza, e solo quella, questo è Dunkirk. Eppure, quando il celeberrimo discorso di Churchill del 4 giugno del 1940, “We shall fight on the beaches”, viene pianamente letto da un soldatino, anziché dallo statista retore, capiamo dell’altro: forse c’è (grande) futuro anche per il narratore mancato Nolan.
IL VADEMECUM STILISTICO
Innovare il genere e la trama, inserendo l’anello che non tiene, lo scarto, ovvero il dissonante e l’alieno
Twitter: @fpontiggia1
OLTRE IL “MINCHIONISSIMO” STORYTELLING Forte dell’accuratezza scenografica e rumoristica della ricostruzione, la visione ha la meglio sul racconto