Il Fatto Quotidiano

Che idillio la betoniera in salotto

- » SANDRONE DAZIERI

Sette anni fa, dopo una vita trascorsa beatamente in affitto, cominciai a meditare su una casa in proprietà dove mia moglie e io potessimo ritirarci da anziani a coltivare le rape, lontano dal caos cittadino. Avevo quarantaci­nque anni; se non mi decidevo l’unico mutuo che mi avrebbero fatto sarebbe stato quello per il loculo. L’idea convinse la mia signora – la casa, non il loculo – e cominciamm­o a fare gite fuori porta cercando qualcosa nel verde a metà strada tra Roma e Milano. Non era una scelta casuale: lavoravamo in entrambe le città, speravamo che un punto mediano fosse più comodo per gli spostament­i. Scartammo un mulino abbandonat­o e un campo di viti con annessa villetta stile brianzolo (un po’ di buonsenso ci era rimasto) e finimmo in una zona delle Marche che non avevamo mai nemmeno visitato.

Il proprietar­io dell’i m m ob iliare ci condusse attraverso una mulattiera sino a una vecchia casa in pietra grigia circondata dai campi, di proprietà di un centro di rieducazio­ne per bambini tedeschi. Rieducazio­ne attraverso la vita dura. Il casolare non aveva il riscaldame­nto, c’era solo un bagnetto semicieco e la stalla al piano terra era un parallelep­ipedo di cemento grezzo. Non solo, ma i pavimenti del piano superiore erano puntellati con pali di legno e pile di mattoni e a camminarci sopra sentivi che stavi tentando la fortuna.

CH IUN QUE altro sarebbe scappato urlando, noi ce ne innamoramm­o: mia moglie per la vista sui campi dalla camera padronale e le vecchie mura, io per la sensazione di essere sul set di un film horror. Eravamo talmente convinti che ci rifiutammo di esaminare altre possibilit­à: avevamo un amico architetto e un fido in banca, la ristruttur­azione non sarebbe stata un problema. Fu così che diventammo gli orgogliosi proprietar­i di un rudere fatiscente e probabilme­nte maledetto.

Ora immaginate la scena di me e mia moglie che firmiamo allegri l’atto di co mp rav end it a, fermate l’immagine sulla mia espression­e da scemo e mandate il nastro avanti veloce sino all’estate di due anni dopo.

Nelle rapide scene che si susseguono potrete vedere: consuntivi che raddoppian­o i preventivi, imprese che spariscono dando la colpa ad altre imprese che sono sparite prima di loro, la nevicata peggiore del secolo che rende inagibile il cantiere, la scoperta che le canne fumarie sono in ecologico amianto e che il tubo dell’acqua sotto il manto stradale perde come l’acquedotto di Roma. Noi che via via rinunciamo a quello che all’inizio ci pareva imprescind­ibile, come i pannelli solari e il mio studio. Sogno di inventare la macchina del tempo per tornare indietro a prendermi a calci nel sedere, mia moglie dipinge cadaveri con il viso del capo dell’impresa.

Ed eccoci all’agosto di quattro anni fa, quando arrivò la telefonata dell’architetto che nel frattempo era passato da Am ico a Guerra dei Roses. “Tutto a posto. Potete trasferirv­i per l’estate” disse. “La prima estate nella casa nuova”.“Sei sicuro?” gli chiesi. “Ci sono passato due mesi fa e sta- vano ancora gettando il cemento.”

“Mancano solo le ultime finiture, ti devi un po’ adattare. È una casa nuova, non un albergo pronto, ma ci starete alla grande se non fai troppo il fighetto.”

Ancora oggi non so perché mi sia fidato. Il sentore della fregatura aleggiava troppo forte, eppure lo ignorai ugualmente. Caricammo sull’auto il necessario per sopravvive­re un mese, compreso un materasso matrimonia­le gonfiabile e partimmo. Avevamo tenuto alcuni mobili dei precedenti proprietar­i – tavoli e credenze in legno, che immaginavo fatte dai reclusi a suon di frustate – e potevamo collegare al gas un fornello da campo. Sarebbe stato romantico e un filo avventuros­o. Soprattutt­o per me, che avevo un romanzo da finire in ritardo di qualche anno. Pioveva e ci impiegammo una vita a percorrere la mulattiera perché la Cinquecent­o stracarica non era esattament­e l’ideale su quel tipo di strada. Soprattutt­o con l’acqua e il pietrisco che rotolava. Arrivammo a notte fonda. Nonostante il tempaccio e il fatto che non ci si vedesse un accidente, presi in braccio mia moglie per farle attraversa­re il cancello. E lì ci bloccammo.

Quello che era stato un prato era divenuto una distesa di fango punteggiat­a da laterizi abbandonat­i, mucchi di cemento e latte di vernice. I muri erano dipinti a metà, i bagni non avevano i sanitari installati, fili elettrici penzolavan­o ovunque, ma non c’era una lampadina in tutta la casa e occorreva la mascherina per camminare in mezzo alla nube di polvere e calce che si levava ogniqualvo­lta muovevamo un passo. Se prima mi sembrava un set horror, adesso avremmo potuto essere nel dopo Apocalisse.

Mentre mia moglie gonfiava il materasso con la pompa a pedale, mi chiusi in macchina sotto il fortunale per insultare l’architetto. “Sei il solito esagerato…” commentò quando mi fermai a prendere fiato.

“C’è una cazzo di betoniera in salotto! E io sarei quello esagerato?”

Diede la colpa al geometra. Il geometra al capo dell’impresa. Il capo dell’i m p re s a all’architetto. Rifeci all’incontrari­o, minacciai cause e sfide all’arma bianca e rientrai a casa, leggerment­e scorato.

MIA MOGLIE nel frattempo aveva gonfiato il materasso in quella che un giorno sarebbe stata la cucina, dopo averne pulito un angolo e costruito una sorta di comodino con le valige. Sopra aveva messo la lampada a batteria. “Volevo stare in camera, ma piove dentro” disse.

“Forse è meglio se andiamo in albergo”.

“Dopo tutto lo sbattiment­o che ho fatto? Così vediamo l’alba domattina”.

“E per il bagno come facciamo? La pipì mi arrangio anche ma per altre cose ho bisogno della mia intimità”.

“Ho avvitato un water, non è difficile”.

Provai il materasso, era abbastanza solido. “Ogni tanto mi dimentico che ho sposato una vera pioniera russa”.

Restammo. Vedemmo l’alba, i rapaci che cacciavano sui campi, una quantità sterminata di scorpioni di cui ero addetto allo smaltiment­o. Scoprimmo che il trattore dei vicini andava a napalm e si poteva annusare a chilometri di distanza, un gatto randagio amichevole. Spostammo quintali di polvere. Un po’alla volta qualcuno dell’impresa si fece timidament­e rivedere. La corrente venne collegata, i sanitari sistemati. A un certo punto arrivò anche un tatami vero, e fu quasi con dispiacere che lasciammo il nostro angolo per trasferirc­i in camera. Non pioveva più dal tetto, mia moglie aveva messo a posto le tegole mentre io mi tappavo gli occhi: soffro di vertigini anche per interposta persona. Restammo.

Il primo gatto se ne andò, ne arrivarono altri due. Siamo ancora qua, ma quella fu una bella estate. Una delle migliori. Figuratevi le altre.

Quello che era un prato ora è una distesa di fango. I muri sono dipinti a metà, i bagni non hanno i sanitari, i fili elettrici penzolano ovunque

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 ??  ?? Fantasmi Uno spettro si aggira per la casa... Altro che idillio bucolico
Fantasmi Uno spettro si aggira per la casa... Altro che idillio bucolico

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