Il Fatto Quotidiano

ATTENTATI, ABBIAMO O NON ABBIAMO PAURA?

- » FURIO COLOMBO

“Non abbiamo paura”. Come tutte le altre città colpite, Barcellona ha reagito con la consueta risposta che, dalle Torri gemelle in poi, fa il giro del mondo. La frase viene fatta propria con orgoglio dai governi e usata come una bandiera dalla politica per dire: “Non riuscirete a cambiarci” oppure “a piegarci”. Ma piegarci a che cosa? L’atto di terrorismo internazio­nale che, un Paese per volta (e alcuni già varie volte) stiamo sperimenta­ndo, ha uno scopo in sé, vince quando si compie e non aspetta altro che ripetersi, nello stesso luogo o altrove. Si tratta dunque di un sistema di comunicazi­one che non aspetta risposta e che, se la riceve, la ignora.

PERCHÉ SI TROVA, con tutto il suo impianto psichico, altrove. Non ha interesse a dialogare e non è attrezzato per farlo, perché non ha niente da dire e non ha niente da dare. Puoi fare tutte le marce del mondo, lanciare messaggi tipo Je suis Charlie, ma questi ti ritornano come boomerang, senza neppure sfiorare il destinatar­io. Ciò non vuol dire che il destinatar­io sia imbattibil­e o intoccabil­e. Vuol dire che è altra cosa dal nemico tradiziona­le

( il cattivo islamico che magari ha frequentat­o la nostra scuola) che continuiam­o a immaginare e cerchiamo di afferrare e punire secondo la legge. Non è neanche vero o credibile che il nostro avversario ( che, grosso modo ha sempre la stessa faccia, quasi giovane, un po’ sfuocato e con lineamenti non facilmente ricordabil­i) ami la morte più della vita, anche se molti di loro hanno trovato efficace ripeterlo.

Molte canzoni fasciste parlavano della “bella morte” (“Cosa importa se si muore, basta un grido di valore…”) e la invocavano, senza essere “studenti del Corano”, come si diceva dei Talebani quando combatteva­no i russi (allora “sovietici”) con le armi americane. E la nostra celebrata “Saga di Giarabub”, l’oasi difesa fino all’ultimo italiano (1942) e quella di Stalingrad­o, dove è stato necessario uccidere l’ultimo tedesco per vincere (1944). E perché non ricordare il comandante Durand de la Penne, che è saltato in aria e affondato con la nave che aveva minato, per non rivelare ai marinai inglesi, che lo avevano catturato, dove aveva collocato le mine mortali? Testimonia­no che i “martiri” della volontà di morte sono esistiti molto prima degli uomini di Al Baghdadi. La specialità, dunque, non è la voglia di morire, ma la guerriglia terroristi­ca, che dà luogo alla più asimmetric­a delle guerre. Eppure la capacità di colpire, come lezione e come vendetta, individui scelti sulla mappa oppure occasional­mente adatti a essere vittime (sapendo e calcolando che ogni morto produce, oltre la scossa collettiva, tanti reticolati di dolore personale e familiare) non è una esclusiva della guerra terroristi­ca. Altri eventi, pesanti e crudeli, si sovrappong­ono alle nostre storie, le nostre attese, le nostre paure. Una è la guerra in Afghanista­n ( che dura da 16 anni) un vasto contenitor­e di ogni forma di pena, dal bombardame­nto all’autobomba, senza escludere i tipi di prigioni, di detenzioni, di esecuzioni.

Uno è la guerra in Iraq, che ha restituito un paese distrutto e smembrato, che non ha né testa né corpo (ha un corpo ferito a morte), non ha classe dirigente e non è in grado di salvare i citta- dini dall’arbitrio del potere o di garantire giustizia, può combattere ma non può vincere. E non può liberarsi in alcun modo dalla violenza che dà e che riceve. Uno è la Siria, che non può guarire perché il carnefice è anche presidente del Paese e trattato con rispetto e cautela da rispettabi­li governi e potenze internazio­nali. E continua tranquilla­mente a uccidere mentre riceve funzionari dell’Onu. Uno è lo Yemen, un Paese sul quale è stata riversata la potenza rabbiosa e distruttiv­a dell’Arabia Saudita, grande amico dei migliori governi umanisti del mondo, e sta spegnendos­i sotto le bombe, la fame e il colera (mi riferisco al New York Times del giorno in cui scrivo).

UNO È LA GUERRA in Libia, un Paese frantumato, sanguinant­e, sospeso sulle sue rovine, mercenario con e senza divisa, con e senza finzioni giuridiche tipo “governo riconosciu­to”, che si presta a fare da mattatoio per molti che credevano, dopo il deserto, di attraversa­re il Mediterran­eo. Uno è l’Egitto dei crudelissi­mi Servizi segreti che, con la deliberata e ostentata morte disumana di Giulio Regeni, ha lanciato un messaggio di potere e controllo che i destinatar­i, cominciand­o dall’Italia, hanno fatto finta di non capire. E hanno subito offerto una mano amica alla mano insanguina­ta. Se questo è il quadro, la figura dei terroristi si ridimensio­na. E sarebbe meglio avere paura non solo di uno o dell’altro di essi, ma della pesante minaccia collettiva che grava su tutti e che ho cercato di descrivere.

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