La prova di fede che Gesù chiede a chi gli sta più vicino
Ponendo una precisa domanda, Gesù avvia coi suoi discepoli un dialogo da cui emergono delle risposte alquanto diversificate fra loro. Ce n’è una in particolare, quella di Simon Pietro, cui segue una reazione specifica di Gesù ed è proprio questa che oggi è al centro del vangelo domenicale (Matteo 16, 13-20). Alcune parole del racconto sono ben note: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…”. Meritano, perciò, di essere considerate nel loro più ampio contesto. Con la sua iniziativa, Gesù compie una sorta d’indagine circa la sua identità: chi dice la gente che io sia?
sono diverse; tutte, però, fanno riferimento a delle figure profetiche: alcune in modo generico; altre, in forma molto esplicita, a Giovanni il Battista, Elia e Geremia. Si tratta di personaggi ben diversi fra loro, ma tutti avevano subìto delle persecuzioni. Elia e Giovanni Battista erano stati osteggiati dal potere politico (da Gezabele, il primo e da Erode, il secondo); Geremia dalla classe sacerdotale e dai notabili del popolo. Considerate secondo questa prospettiva di martirio, le prime risposte non sono davvero da po- co; ci offrono, anzi, alcuni importanti criteri per la comprensione dell’identità di Gesù. In qualche maniera, anzi, ci anticipano l’esito della sua vita terrena.
Gesù, però, vuole andare più a fondo e sollecita una risposta personale: non quella della gen- te, ma la risposta delle persone che egli ha chiamato, con cui ha stabilito una comunanza di vita, che ha voluto compagni di viaggio e testimoni privilegiati della sua storia: “Ma voi chi dite che io sia?”. Solo se giunge da questo tipo di relazioni, la risposta è interessante per Gesù. Ed è cosa diversa da un sondaggio d’opi- nione. Pietro, dunque, identifica Gesù facendo ricorso a una categoria di relazione: lo identifica come “figlio”, che è cosa più profonda perfino della tipologia del profeta e del martire. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, gli dice. Gesù, a sua volta, mette in luce la via che ha condotto Pietro a questa confessione di fede: ancora una relazione, ossia l’ accoglienza della rivelazione del Padre che è nei cieli. Per questo lo dichiara beato. Non c’è comprensione piena di Gesù, senza coinvolgimento in queste relazioni.
Questo è fede: abbandono in Dio e assenso libero d’intelligenza e volontà alla sua parola. Considerando come indice per la comprensione del racconto evangelico anche la prima lettura biblica di questa Domenica (Isaia 22, 19-23), vi troviamo il tema delle chiavi, simbolo del conferimento di un’au to ri tà : “Porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”. C’è il vocabolario delle parole che Gesù rivolge a Pietro: egli non è amministratore infedele come Sebna; è fedele, perché ha ascoltato e accolto la Parola di Dio. Il detto sulle chiavi è riportato alla base della cupola della Basilica di San Pietro a Roma e noi cattolici vi riconosciamo il conferimento a Pietro di un primato speciale. Come Pietro ha usato queste chiavi?
due gesti dagli Atti degli Apostoli. A Giaffa, nella casa del centurione Cornelio, Pietro dichiara: “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”(Atti 10,35); a Gerusalemme, in una decisiva riunione della Chiesa interviene dicendo: “perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare?” (Atti 15, 10).
Apre così ai pagani l’accesso al Regno e li esonera dall’osservanza di alcune norme della legge mosaica. È il primo uso del “potere delle chiavi” per l’edificazione della Chiesa di Cristo.