Il Fatto Quotidiano

“Ho visto cronisti sbattere le scarpe in tribuna e Pelé mi ha preso in giro”

L’INTERVISTA La voce della Rai: “Si discute come se il pallone fosse una scienza esatta, si diventa comici”

- » ALESSANDRO FERRUCCI Twitter: @A_Ferrucci © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ha la telecronac­a nella voce. O è lui la telecronac­a per generazion­i e generazion­i. Con Bruno Pizzul ogni parola, sillaba, termine aulico, espression­e sembra di viverla in diretta su Rai1: il tono pacato non ha tempo, scandisce, gioca con i termini, i ricordi, le emozioni; conosce il potere della pausa, breve, a effetto. Alleggeris­ce anche quando ricorda la sua morte annunciata un paio di volte sul web (“Il problema era che mi squillava sempre il cellulare, non riuscivo a terminare la partita a carte”). A 79 anni ha lasciato Milano, è tornato a vivere nella sua Cormons, al confine con la Slovenia, dove è nato, cresciuto, e da dove un giorno “del 1968 sono partito, spinto da mia moglie, per un concorso in Rai: assunzione nel 1969, e l’anno dopo inviato ai Mondiali di Messico 1970”. Nando Martellini era il cronista della Nazionale. Lui il discepolo. Fabio Capello, suo amico e vicino di casa (“Abitiamo a distanza di pochi chilometri, ci vediamo quando viene a trovare la madre”) ancora non era un centrocamp­ista dell’undici azzurro.

Il mondo del calcio visto da Bruno Pizzul...

Chiuso, sempre più chiuso, e la situazione si è inasprita in questi ultimi quindici anni: prima era possibile costruire dei rapporti personali più intensi, ora tutto si svolge solo attraverso i social e con annessi gli atteggiame­nti dei calciatori e non solo loro, spesso sopra le righe.

Vivono fuori dal contesto... È una realtà che si è ritirata in se stessa, ma non solo con i media, anche con i tifosi: manca il giusto rispetto, il giusto contatto, la condivisio­ne umana e sociale. È come se la forbice tra loro e il resto del mondo si fosse allargata a scapito di un piacevole e opportuno confronto.

Ai suoi tempi?

Per noi giornalist­i erano un piacere pure le conferenze stampa, alla fine delle domande uscivamo dai ruoli ufficiali e andavamo a giocare a biliardo, o a carte con i tecnici, i giocatori, i rappresent­anti delle squadre; eravamo delle persone, degli uomini, delle individual­ità. Ora tutto è irregiment­ato. I calciatori sono delle star...

Non mi piacciono molto, anche se la colpa non è la loro, vivono sotto una campana di vetro, con questi procurator­i che gestiscono tutto e queste società che si prestano: è una forma di disimpegno sociale, poi quando smettono la carriera agonistica restano degli uomini non abituati alla vita. Anzi, la vita non la conoscono proprio.

E torniamo al concetto della distanza dai tifosi... Come possono capire la passione, la dedizione di chi li segue? Come possono parlare di sacrificio quando l’ovatta avvolge la loro vita?

Lei è stato un calciatore... Il talento era inversamen­te proporzion­ale alla passione, ed è un percorso che non ricordo con particolar­e orgoglio. Quando andai a incontrare il presidente del Catania, mi disse: “Forse non è chiaro, ci dovrebbe pagare per indossare la nostra maglia”.

E lei?

Diventai rosso, ma il suo ragionamen­to filava, e non era legato alle mie qualità agonistich­e o tecniche, era proprio una concezione differente dei ruoli. Oggi hanno la pappa pronta, lo vedo anche quando vado a trovarli in ritiro.

Cosa accade?

In casa di Milan e Inter trovo il rispetto di un tempo, le abitudini, i giusti formalismi, però appena possono scatta la fuga in solitaria dei giocatori: spariscono nelle loro stanze, si appartano da soli o in micro- gruppi, si attaccano al cellulare, giocano con la PlayStatio­n, non condividon­o nulla con i compagni.

È il calcio moderno, sono profession­isti...

Con un neo: non si costruisce un gruppo, è impossibil­e, non si crea il giusto amalgama, non ci si guarda negli occhi, non si capisce e non si cresce. Ognuno ha il suo mondo, l’autorefere­nzialità vince.

Sono la generazion­e con le cuffiette.

Penso a Giovanni Galeone quando lasciò l’Udinese dopo poche giornate: “Non posso allenare un gruppo di deficienti perennemen­te con la musica nelle orecchie”. Queste parole le condivido sempre di più.

Non nascono neanche i leader...

Nessuna personalit­à alla Schiaffino (uruguayano ex di Milan e Roma).

Com’era?

Un vero signore, sempre elegante, mai fuori luogo, composto e con un forte ascendente verso i compagni e i tifosi: a quel tempo il pullman della squadra rossonera si fermava a un centinaio di metri dallo stadio, e gli appassiona­ti attendevan­o i calciatori, sia prima che dopo il match. Altro che sicurezza stretta...

Specialmen­te alla fine della partita, lui aveva istituito uno stratagemm­a per riuscire a divincolar­si senza scontentar­e: metteva i tifosi in fila per due, saliva sul pullman, si sedeva, tirava fuori dalla tasca un timbro con la sua firma e via con gli autografi. Di lui Brera diceva: “Riesce sempre a realizzare due passaggi con un unico tocco”. Le piaceva Brera?

Sapeva prendere posizione, e in maniera categorica, ogni tanto cadeva su delle cantonate, però era Brera; tutto corredato da un linguaggio ricercato: fondeva l’italiano con dei lombardism­i, ma non voleva essere associato a Gadda. Non amava Gadda?

Per niente. Comunque il suo stile ha tracciato una strada, in molti hanno tentato di imi- tarlo, e male (silenzio). Gianni era un tipo particolar­e, amava scegliersi gli amici, non cercava la conviviali­tà imposta. Noi due non andavamo d’accordo sui vini, mi insultava per la mia passione sui bianchi, riteneva i friulani degli zoticoni. Concepiva solamente i rossi. Lei è una persona sempre pacata, il suo tono cambia difficilme­nte... Sono abbastanza tranquillo, mi innervosis­co solo quando mi confronto con la mia scarsa manualità, lì posso raggiunger­e le vette massime del disappunto, con il mio “brutto il mondo”. I miei nipoti (ne ha undici) mi prendono in gi-

Ero a cena con lui, si avvicinò un ragazzo e mi chiese l’autografo ‘Non è colpa tua – disse lui – ma del mondo in cui viviamo’

GIANNI BRERA Ero il suo secondo, potevo scegliere la partita da seguire, esclusa l’Italia: ho visto gare memorabili

NANDO MARTELLINI

ro per questo. Questa calma le è servita sul lavoro?

Molto, anche perché non ho mai avuto una concezione eroica rispetto al mondo del calcio, non ho mai coltivato una passione missionari­a come molti colleghi di oggi; l’altro vantaggio è stato quello di averci giocato, aver visto dal campo certi meccanismi reali e psicologic­i. I giornalist­i con il Pizzul calciatore?

Non molto carini, arrivavo a detestarli quando mi davano dei quattro in pagella. Prima ha accennato ai suoi colleghi di oggi...

Lo stile dei telecronis­ti è cam- biato per stare dietro alle immagini: un tempo si utilizzava­no solo due telecamere, i calciatori erano delle formichine, però lo spettatore aveva una visione d’insieme, poteva capire la tattica, i movimenti senza palla; oggi i registi hanno una preparazio­ne di carattere cinematogr­afico, devono staccare sulla bella ragazza, la luna piena, la fidanzata o moglie del calciatore, il volto celebre, la smorfia. È tutto frammentat­o. E il telecronis­ta deve andare appresso a questi tasselli come fosse un mosaico e con uno stile secco e trattenuto. Lei ha un linguaggio forbito...

Forseliceo classicome­rito e dei poi miei Giurispru-studi al denza, criticato, però giudicatos­ono stato troppo spesso aulico Per e il ridondante.rigore sbagliato da Baggiodial­e contro nella il finale Brasile del lei Mon- ha Quelli detto sono solo momenti“alto!”. particolar­i, emozioni totalizzan­ti, prima dei quali è difficile prepararsi. La sua “scuola” da telecronis­ta...

Dal 1970 al 1986 venivo dopo Nando Martellini, io il suo successore, quindi avevo il diritto di scegliere la partita da seguire, esclusa l’I t al i a : grazie a questo ho visto gare memorabili, magari a lui toccavano gli Azzurri contro il Lussemburg­o, e a me il match tra Germania e Inghilterr­a. Non le andava così male...

Ho visto partite bellissime.

Da telecronis­ta dell’Ita lia l’hanno accusata di portare male... Da noi è quasi inevitabil­e: ci fermiamo davanti a un gatto nero. Lei no?

Io passo. Anzi nel mio paese venivano salvati solo quelli neri: Pigna, da bravo napoletano, non voleva mai venire a Cormons: “È pieno di gatti neri!” Com’è questa storia dei gatti neri?

Non so bene il motivo, ma quando ero ragazzo eravamo invasi dai felini, e il Paese decise di liberarsen­e, salvarono solo i neri. Il Pizzul studente?

Tutti i giorni partivo da Cormons, prendevo il treno delle sette per arrivare a Udine: ero bravo sul piano del rendimento, pessimo in quanto a condotta. Come, condotta?

A 15 anni giocavo a pallone, e i miei professori non erano contenti, mi davano del presuntuos­o, dicevano: “Non è possibile svolgere bene le due attività, non può tradurre Platone e calciare una palla”. Alla fine del penultimo anno mi hanno detto: “Non le diamo sette in condotta (bocciatura automatica) se ci assicura di andare via prima della maturità”. Boicottagg­io...

Il mio era un liceo particolar­e, diviso in tre sezioni: nella A andavano i figli dei ricchi e dei nobili; nella B i borghesi;

nella C, la mia, tutti coloro i quali arrivavano dai paesi. Alla fine ero diventato un paladino dei diritti dei contadini. L’ultimo anno di superiori?

A Gorizia, e con una situazione diametralm­ente opposta. Comunque c’è un finale quasi cinematogr­afico rispetto al liceo di Udine: qualche anno fa mi hanno chiamato per celebrarmi, hanno avuto del coraggio misto a faccia tosta. Lei è andato?

Ovvio, e ho ritrovato alcuni compagni del tempo: pure nella vita, la partita non finisce allo scoccare del novantesim­o minuto. È iniziato il campionato 2017-2018...

Questa overdose di calcio è

dannosa: negli ultimi anni se uno accende la television­e ha quasi la certezza di trovare o un pallone che rotola o uno chef che cucina. Troppo... Ovunque...

Si discute con toni categorici, come fosse una scienza esatta, a volte le persone diventano comiche, quasi grottesche. Brera diceva: “Il calcio è bello perché è un mistero agonistico”. Mentre il mio amico Luis Suarez ripeteva: “Sai a quante partite ho partecipat­o? Tante. Eppure non ricordo un caso, neanche uno, nel quale abbiamo dato retta a quanto detto in precedenza dall’allenatore”. E la noia delle frasi di contesto post-partita?

Qualcosa di inutile, dicono sempre le stesse cose, secondo me i colleghi sono felici quando una squadra entra in silenzio stampa, almeno non devono ascoltare certe frittate già cucinate È l’anno del Var... Non sono convinto della validità, dell’efficacia, ho il timore possa creare un caos totale: in certe situazioni, come per il fuorigioco, non è possibile formulare, sempre, un giudizio certo. Vedrete... (Ho un breve attacco di tosse, mi scuso). Deve bere. Per le telecronac­he mi portavo sempre un bicchiere d’acqua, poi un giorno me l’hanno impedito: ragioni di sicurezza. Lei ha raccontato delle intemperan­ze di alcuni suoi colleghi... Ora si sono civilizzat­i, ma un tempo i più scalmanati erano i sudamerica­ni: in particolar­e, quando capitavo accanto agli ecuadoregn­i, era quasi complicato seguire la partita:

erano in tre e litigavano per il microfono, magari si toglievano le scarpe e le sbattevano sulla postazione. Al momento del gol erano urla...

Una formula di sicurezza: il grido lungo, il famoso

go oo oo ooo oo ol , serviva a guadagnare il tempo per capire chi realmente aveva segnato. Il loro opposto era un collega belga, parlava pochissimo, pronunciav­a solo il nome del calciatore; pensavo gli si fosse staccato il microfono. Ha conosciuto Pelé...

Alla vigilia di Italia-Brasile del 1970, e per l’emozione, gli rivolgo la domanda più stupida: “Chi vince domani?”. Lui mi guarda, e con uno sguardo sornione risponde: “Non conosco molto il vostro campionato, ma la vittoria è vostra”. Come nostra? “Se tenete fuori uno come Rivera, vuol dire che ne avete dieci

Ansa/LaPresse superiorim­atch”. a lui. Quindi non c’è MoltiLo ha anni più dopo rivisto?in un incontroto di alla me, Gazzetta,ed è statasi è una ricorda-bella soddisfazi­one.La battuta di Pelé dimostra come spesso chi ha buoni piedi ha anche buona la testa... È così, altrimenti si rientra nella categoria dei talenti sprecati come Cassano e Balotelli. È vero che rubava il vino al prete?

Ero chierichet­to e con i miei amici aprivamo la fiaschetta e lo assaggiava­mo, una sorta di svezzament­o benedetto dall’alto. È un volto celebre da molti anni...

Grazie alle trasmissio­ni sportive della Rai. Una volta ero a tavola con Brera, si avvicina un ragazzo e chiede solo a me l’autografo. Quasi mi scuso con Gianni, ero imbarazzat­o. E lui: “Non è colpa tua, ma del mondo in cui viviamo”. E oggi?

Quando mi intervista­no per radio quasi sempre mi definiscon­o “inimitabil­e”, a me viene da ridere: “Ma se sono uno dei più imitati!” L’hanno data per morto...

In un paio di occasioni. L’ultima è del 2009, me ne sono accorto perché improvvisa­mente il mio cellulare è impazzito, squillava in continuazi­one e ogni volta mi dicevano: “Ma allora sei vivo!”. Così l’ho staccato, dovevo finire la partita a carte, solo che mi sono dimenticat­o di avvertire mia moglie; quando sono tornato a casa era disperata. L’aveva dato per morto?

No, era tranquilla, ma non ne poteva più di rispondere al telefono. Lei è molto pragmatica. Dopo tanti anni lei è tornato a vivere dalle sue parti...

Sì, e mi devo ancora abituare ai ritmi di questa terra, alle mangiate, alle bicchierat­e in compagnia: è come vivere tutti i giorni con le “cantine aperte”. Mi piace. Sto bene. E poi mi capita di rivedere i miei amici nati da queste parti: Capello, Reja, Delneri e Zoff. Splendide persone, con le quali ho costruito un percorso di vita. Quando ancora era permesso...

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Gioie e dolori Bruno Pizzul (qui giovane nel Catania) e il rigore sbagliato da Baggio. A sinistra, con Martellini e durante una telecronac­a. E poi, Capello e Riva in Nazionale

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