MA I POLITICI PRETENDONO L’ESCLUSIVA DELL’ODIO
Che paura ci ha fatto la copertina dell’ultimo Se tt e! Un maramaldo da ll ’ aria beffarda abbranca uno smartphone con le unghie a punta, segno lombrosiano peraltro tipico di etnie sgradite e “nemici del popolo” oggetto delle caricature propagandistiche dei totalitarismi del Novecento. Chiaramente sta insultando qualcuno su Facebook. Fermiamo il bruto digitale?, chiede l’inserto del Corriere, e l’editoriale di Beppe Severgnini, ansiogeno-pragmatico, rilancia: “I bruti digitali stanno vincendo? E il governo italiano cosa aspetta?”. Insomma siamo in guerra, oltre che con l’Isis, coi pericolosi autori di “offese gravissime, insulti nauseanti, minacce di morte” sul web.
CHE FARE? Sette esclude carcere e multe e propone una sorta di “giustizia riparativa”: l’insultatore viene preso per un orecchio e condotto al cospetto dell’insultato; così si “responsabilizza il reo” in “un percorso di mediazione e comprensione del torto arrecato”. Da chi debba essere nominata l’autorità predisposta alla punizione, e su quali basi si debba muovere, non è chiaro. Ma l’inchiesta non si limita a sparare sui decerebrati del web, evoluzione, si fa per dire, di quelli che in epoca analogica scrivevano insulti sulle schede elettorali e nei cessi degli autogrill, senza che nessun politico minacciasse l’uso della forza o ricorresse agli psicofarmaci. In un’encomiabile equidistanza, incolpa i social network che si rifiutano di fornire alle autorità l’indirizzo Ip dei bruti da punire.
Ma se il potere degli haters è l’anonimato, allora la soluzione è una schedatura di massa, un deterrente orwelliano per intercettare chiunque manifesti di odiare qualcuno. Incidentalmente, se l’insultato è famoso e potente, la punizione sarà una sorta di gogna pubblica, come dimostra la decisione della presidente della Camera Boldrini di denunciare gli autori dei vergognosi insulti che la riguardano. Il confine tra l’hate speech, i discorsi d’odio, e il dissenso politico, poi, è labile: chi lo stabilisce? Come non ricordare la risoluzione del 23 novembre 2016 con cui il Parlamento europeo si è impegnato a“c o nt r astare la propaganda nei confronti dell’Ue” e dei “partenariati tran satlanti ci”, con l’istituzione di un ’ authority che censura chi parla male del progetto europeo? Par di capire che i potenti possano scrivere sui social quel che vogliono, insultare la verità, dire che #Italiariparte, che il Jobs Act funziona, irridere chi va a votare con un #ciaone, sostenuti dai loro sgherri dello storytelling, lecchini e lacchè di tutte le risme; mentre chi si ribella, da par suo, vada fermato. Nessuno che dica che questo clima di risentimento è frutto anche dell’operato dei politici, degli insulti che rivolgono alla gente comune (“gufi”, “rosiconi”), e dell’anamorfosi pericolosa con la quale la politica è stata schiacciata sulla comunicazione. È inevitabile che i politici vengano insultati: non sta scritto da nessuna parte che debbano stare tutto il giorno su Twitter, Facebook e Instagram, personalmente o con staff pagati da noi, a comunicare i loro spostamenti e la loro propaganda.
NON CE LA VENGANOa raccontare: tutto questo affannarsi contro fake news e haters non è che un disperato tentativo con cui le élite tentano di difendersi dal disgusto ineliminabile che suscitano nella plebe. Immune da giudizio è invece l’odio dei potenti per i deboli (7 milioni 200mila italiani sotto la soglia di povertà), estrinsecato sotto altre forme più eleganti ma certo più esiziali, tipo Jobs Act, tagli alla Sanità, erosione del welfare. Il tutto mentre i leader aspirazionali volano oltreoceano a nostre spese a rendere omaggio ai multimiliardari del silicio, postando gli scatti che li ritraggono insieme sui social apparentemente gratuiti dai quali veniamo in tutte e due le direzioni, da quella del Capitale e da quella politica, spudoratamente, subdolamente e da oggi anche didatticamente governati.
DUE PESI E DUE MISURE I politici possono scrivere sui social network quello che vogliono. Per i comuni mortali, invece, chiedono una gogna pubblica