Il super-euro che rischia di schiantare la ripresina
Giù il dollaroLa moneta forte deprime l’export e l’economia, le stime del governo sono già state superate: la crescita può dimezzarsi
Una notizia buona e una cattiva, in grado di vanificare la prima. Quella buona: Moody's ha rivisto al rialzo la crescita economica dell’Italia, Pil al +1,3% sia nel 2017 sia nel 2018, contro le precedenti stime che prevedevano un incremento dello 0,8% quest’anno e dell’1% il prossimo. L’agenzia di rating ieri ha scritto che “si aspetta che la ripresa continui, anche per il beneficio delle politiche monetarie e fiscali di sostegno e per la crescita più forte nel resto dell’Unione europea”. Se Draghi continua a pompare denaro fresco nel sistema, e finché gli altri Paesi europei continuano la loro crescita sostenuta, insomma, l’Italia resta a galla. Quella cattiva è che la quotazione dell’euro continua a salire nei confronti del dollaro. O meglio: è il secondo che si sta indebolendo progressivamente. Dall’inizio dell’anno l’euro è cresciuto del 13%, con un’accelerazione nelle ultime settimane. Martedì ha toccato quota 1,20 dollari, per poi ripiegare leggermente (1,19) ieri dopo i dati positivi oltre le attese dall’economia Usa.
LA CRESCITA della valuta è un problema per l’Italia, e per diversi Paesi dell’eurozona (tipo la Germania), perché rende meno competitive le sue esportazioni, che sono il motore della sua timida crescita (anche all’1,3%, facciamo peg- gio di tutti gli altri Paesi Ue, Grecia a parte).
Nelle stime del ministero dell’Economia contenute nel Documento di Economia e finanza pubblicato nell’aprile scorso, il cambio era previsto a quota 1,06 dollari, costante fino al 2020. E nell’analisi di rischio si indicava che una rivalutazione dell’euro a quota 1,12, quindi ben più bassa di quella che si sta già verificando, si sarebbe tradotta in una minore crescita del Pil di circa mezzo punto percentuale (per la minore competitività delle esportazioni). A dimostrazione che una valuta “forte” non è di per sé un bene. Sull’argomento aveva detto la sua in primavera l’Ufficio parlamentare di Bilancio, una specie di Authority dei conti pubblici, notando che l’ipotesi tecnica di cambio costante nel quadriennio “appare in contrasto con le attese del mercato”. Previsione azzeccata.
Il problema è che un calo di mezzo punto di crescita per il rapporto defict/Pil italiano è un serio problema. Significa infatti una ripresa ammazzata nella culla, minori capacità di rientro del rapporto deficit Pil e una pesante ipoteca sulle prossime manovre di bilancio, che dovrebbero invece essere espansive. Nel giugno scorso Pier Carlo Padoan aveva scritto una lettera a Bruxelles, annunciando che la manovra per il 2018 avrebbe portato un miglioramento dei conti pubblici in termini strutturali pari allo 0,3% del Pil, cioè circa cinque miliardi di euro (in realtà per stare nei parametri europei ne sarebbero necessari 10). Una mancata crescita di mezzo punto percentuale significa oltre 8 miliardi in meno su cui contare, quanto basta per mandare all’aria le previsioni di rientro e i progetti di bilancio che il governo vuol mettere nero su bianco a settembre. Anche le più recenti stime di Bankitalia si basano su un cambio euro/dollaro che già adesso è superato ampiamente. Per gli analisti il rialzo dell’euro proseguirà.
LA FACCENDA si farà ancor più complicata quando finirà il Quantitative easing, , l’acquisto massiccio di debito pubblico dei Paesi dell’eurozona da parte della Bce di Mario Draghi per tenere insieme i cocci dell’Eurozona e che ha spinto i tassi d’interesse a zero che non piacciono ai tedeschi (crea problemi al suo sistema bancario e assicurativo). Per Berlino la crescita dell’area euro, anche senza un reale ritorno dell’inflazione, basta
L’UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO
L’ipotesi di cambio costante adottata dal governo nel Def appare in contrasto con le attese del mercato
per iniziare la ritirata dal programma che acquista titoli pubblici a ritmo di 80 miliardi al mese. Una riduzione degli acquisti potrebbe essere annunciata già quest’autunno. Solo i timori per il rialzo dell’euro possono ritardarla.
La spesa per gli interessi sul debito pubblico italiano è ora poco sopra i 68 miliardi, il 4,1% del Pil. Un aumento dei tassi dell’1% costerebbe circa 4 miliardi in più solo il primo anno, 8 il secondo e così via.