Il Fatto Quotidiano

Derivati: i mandanti politici dei maxi-buchi non pagano mai

L’inchiesta della Corte dei Conti è sull’operazione Morgan Stanley ma non tocca anni di furbizie

- » STEFANO FELTRI

Ei politici? L’inchiesta della Procura della Corte dei conti sulla chiusura del derivato tra ministero del Tesoro e Morgan Stanley, costata allo Stato italiano 3,1 miliardi di euro nel 2012, ha due bersagli: i tecnici del ministero, accusati di aver gestito male un’operazione pericolosa, e la banca che, forte del suo ruolo di contropart­e della Repubblica italiana per la collocazio­ne del debito, ha esercitato una clausola a lungo ignorata nel contratto per spennare lo Stato nel momento in cui era più debole, in piena crisi dello spread. Morgan Stanley vorrebbe cavarsela con 30 milioni di risarcimen­to, come ha rivelato il Fatto ieri, in una specie di patteggiam­ento a fronte di una richiesta danni da 2,7 miliardi.

MA IN QUESTA STORIA sembra che la strategia sul debito sia una questione tra tecnici del tesoro e banchieri internazio­nali, tesi che piace a chi vede conflitti di interessi e complicità tra pubblico e privato, ma che trascura un dettaglio: i derivati sono stati a lungo parte della politica economica, anche se in teoria dovrebbero essere soltanto strumenti finanziari per assicurars­i contro eventi avversi, come un improvviso aumento dei tassi di interesse sul mercato. Una politica economica decisa dai ministri e dai governi, non certo dai tecnici.

Si capisce guardando i dati Eurostat sulla spesa annua dei governi in derivati, invece che quello considerat­o di solito, cioè il mark to market, il valore attuale teorico del portafogli­o in derivati alle condizioni di mercato di oggi (a fine 2016 era negativo per 36,4 miliardi di euro). Si scopre così, dai dati Eurostat, che negli anni dell’ingresso dell’euro i derivati portavano soldi: 2,4 miliardi nel 1997 e 3 miliardi nel 1998, gli anni di Romano Prodi premier e Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro. Nell’euro saremmo entrati lo stesso, probabilme­nte, perché il rapporto tra deficit e Pil sarebbe stato comunque nei parametri, hanno calcolato in questi anni al ministero. Ma i derivati hanno aiutato. Una furbizia che però non sembra produrre danni: negli anni successivi i derivati continuano a generare impatti positivi sul deficit, anche se piccoli, 492 milioni nel 199, 328 nel 200, 232 nel 2001. Poi al governo arriva il centrodest­ra di Silvio Berlusconi e al ministero del Tesoro Giulio Tremonti, dal 2005 come direttore generale del Tesoro c’è il futuro ministro Vittorio Grilli. È lui il referente del dipartimen­to guidato da Maria Cannata che gestisce il debito.

IN QUEI PRIMI ANNI tremontian­i, i derivati generano molte risorse: passano da 232 milioni nel 2001 a 1,9 miliardi nel 2002, a 642 milioni nel 2003. Non c’è da entrare nell’euro questa volta, ma da trovare le coperture per le leggi finanziari­e.

Nel 2004, silurato Tremonti, si insedia come ministro Domenico Siniscalco, che poi passerà a guidare il ramo italiano di una delle banche che costruisco­no derivati per il Tesoro: proprio Morgan Stanley. Con l’accoppiata Siniscalco-Grilli i derivati tornano a essere un affare, almeno all’apparenza: il Tesoro incassa dalle banche contropart­i 1 miliardo nel 2004 e 1 miliardo nel 2005. A differenza che a fine anni Novanta, però, poi il conto arriva e i derivati iniziano a generare perdite. Dal 2006 al 2011, quando e- splode la crisi dello spread, il Tesoro è soprattutt­o impegnato a gestire le conseguenz­e delle scelte compiute in quei primi anni Duemila: i derivati continuera­nno a generare perdite, quasi fosse il conto da pagare per il bengodi della fase Tremonti-Siniscalco, a cui risale gran parte dei contratti che continuano a produrre effetti: 408 milioni di rosso nel 2006 (c’è di nuovo il centrosini­stra al potere), 601 nel 2007, ben 1 miliardo nel 2008, 810 milioni nel 2009.

“FINO AL 2005, l’operativit­à del Tesoro ha perseguito un duplice obiettivo: da un lato, il contenimen­to di fabbisogno e deficit attraverso operazioni di rimodulazi­one dei flussi d’interesse e, dall’altro, l’allungamen­to della du ra ti on complessiv­a del debito. Entrambi gli obiettivi erano perseguiti mediante il ricorso a Interest Rate Swap (IRS) e swaption”, spiegava la Cannata in audizione in Parlamento nel 2015. Tradotto: fino al 2005, quando i governi avevano bisogno di soldi, spostavano un po’ di interessi sul futuro (“rimodulazi­one dei flussi). Poi è rimasta soltanto l’attività di gestione della durata del debito: emettere solo debito a breve termine è troppo pericoloso perché lo Stato si espone al rischio di non trovare chi lo rifinanzia in condizioni di tensione sul mercato; emettere a lungo termine costa molto. Quindi si usano i derivati per rendere stabili i flussi e allungare con questi strumenti la durata effettiva del debito senza sostenerne il costo corrispond­ente ( per questo, notano sempre al Tesoro, al “costo” del derivato vanno sottratti i risparmi dovuti ad aver allungato la durata a posteriori).

Negli anni dello spread, e fino al 2016, le perdite da derivati diventano ingenti, dai 3,6 miliardi del 2012 ai 4,2 del 2016, ma per ragioni diverse rispetto alla fase Tremonti-Siniscalco: nel momento in cui il mercato colpiva il debito italiano, usare strumenti derivati era uno dei pochi sistemi a disposizio­ne per i tecnici del ministero per evitare che si creasse il dramma atteso, quello di una domanda insufficie­nte alle aste del nuovo debito pubblico. Quando poi la Bce inizia a tagliare i tassi di interesse come reazione alla crisi, gli strumenti assicurati­vi comprati dal Tesoro per contenere i danni in caso di aumento dei tassi diventano fonte di perdite, come quando si paga una (costosa) assicurazi­one per proteggers­i da un evento che si verifica. Il deputato del Pd Giampaolo Galli, alla Camera, ha fatto notare però che il danno è inferiore a quello che sembra: tra 2013 e 2016 il costo dei derivati registrato da Eurostat e Istat è stato di 24 miliardi e il risparmio dovuto al calo degli interessi frutto delle politiche della Bce esattament­e 24 miliardi. Se i tassi fossero stati più alti, le perdite da derivati sarebbero risultate inferiori.

Quando i politici hanno smesso di usare i derivati per aggiustare i bilanci – e dal 2010 con le nuove norme è quasi impossibil­e e dal 2014 sono vietati agli enti locali – anche questa forma sofisticat­a di finanza sembra essere diventata più innocua.

La tentazione

Fino al 2005 vengono usati per avere risorse subito spostando i costi sul futuro miliardi Il valore del portafogli­o contratti a prezzi di mercato Fine anni Novanta Hanno permesso di ridurre il deficit per entrare nell’euro, ma senza troppi strascichi miliardi Il risparmio 2013-2016 sui tassi dovuto alla Bce

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Due momenti L’impatto dei derivati sul deficit: fino al 2005 contribuis­cono ad abbassarlo

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