Derivati: i mandanti politici dei maxi-buchi non pagano mai
L’inchiesta della Corte dei Conti è sull’operazione Morgan Stanley ma non tocca anni di furbizie
Ei politici? L’inchiesta della Procura della Corte dei conti sulla chiusura del derivato tra ministero del Tesoro e Morgan Stanley, costata allo Stato italiano 3,1 miliardi di euro nel 2012, ha due bersagli: i tecnici del ministero, accusati di aver gestito male un’operazione pericolosa, e la banca che, forte del suo ruolo di controparte della Repubblica italiana per la collocazione del debito, ha esercitato una clausola a lungo ignorata nel contratto per spennare lo Stato nel momento in cui era più debole, in piena crisi dello spread. Morgan Stanley vorrebbe cavarsela con 30 milioni di risarcimento, come ha rivelato il Fatto ieri, in una specie di patteggiamento a fronte di una richiesta danni da 2,7 miliardi.
MA IN QUESTA STORIA sembra che la strategia sul debito sia una questione tra tecnici del tesoro e banchieri internazionali, tesi che piace a chi vede conflitti di interessi e complicità tra pubblico e privato, ma che trascura un dettaglio: i derivati sono stati a lungo parte della politica economica, anche se in teoria dovrebbero essere soltanto strumenti finanziari per assicurarsi contro eventi avversi, come un improvviso aumento dei tassi di interesse sul mercato. Una politica economica decisa dai ministri e dai governi, non certo dai tecnici.
Si capisce guardando i dati Eurostat sulla spesa annua dei governi in derivati, invece che quello considerato di solito, cioè il mark to market, il valore attuale teorico del portafoglio in derivati alle condizioni di mercato di oggi (a fine 2016 era negativo per 36,4 miliardi di euro). Si scopre così, dai dati Eurostat, che negli anni dell’ingresso dell’euro i derivati portavano soldi: 2,4 miliardi nel 1997 e 3 miliardi nel 1998, gli anni di Romano Prodi premier e Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro. Nell’euro saremmo entrati lo stesso, probabilmente, perché il rapporto tra deficit e Pil sarebbe stato comunque nei parametri, hanno calcolato in questi anni al ministero. Ma i derivati hanno aiutato. Una furbizia che però non sembra produrre danni: negli anni successivi i derivati continuano a generare impatti positivi sul deficit, anche se piccoli, 492 milioni nel 199, 328 nel 200, 232 nel 2001. Poi al governo arriva il centrodestra di Silvio Berlusconi e al ministero del Tesoro Giulio Tremonti, dal 2005 come direttore generale del Tesoro c’è il futuro ministro Vittorio Grilli. È lui il referente del dipartimento guidato da Maria Cannata che gestisce il debito.
IN QUEI PRIMI ANNI tremontiani, i derivati generano molte risorse: passano da 232 milioni nel 2001 a 1,9 miliardi nel 2002, a 642 milioni nel 2003. Non c’è da entrare nell’euro questa volta, ma da trovare le coperture per le leggi finanziarie.
Nel 2004, silurato Tremonti, si insedia come ministro Domenico Siniscalco, che poi passerà a guidare il ramo italiano di una delle banche che costruiscono derivati per il Tesoro: proprio Morgan Stanley. Con l’accoppiata Siniscalco-Grilli i derivati tornano a essere un affare, almeno all’apparenza: il Tesoro incassa dalle banche controparti 1 miliardo nel 2004 e 1 miliardo nel 2005. A differenza che a fine anni Novanta, però, poi il conto arriva e i derivati iniziano a generare perdite. Dal 2006 al 2011, quando e- splode la crisi dello spread, il Tesoro è soprattutto impegnato a gestire le conseguenze delle scelte compiute in quei primi anni Duemila: i derivati continueranno a generare perdite, quasi fosse il conto da pagare per il bengodi della fase Tremonti-Siniscalco, a cui risale gran parte dei contratti che continuano a produrre effetti: 408 milioni di rosso nel 2006 (c’è di nuovo il centrosinistra al potere), 601 nel 2007, ben 1 miliardo nel 2008, 810 milioni nel 2009.
“FINO AL 2005, l’operatività del Tesoro ha perseguito un duplice obiettivo: da un lato, il contenimento di fabbisogno e deficit attraverso operazioni di rimodulazione dei flussi d’interesse e, dall’altro, l’allungamento della du ra ti on complessiva del debito. Entrambi gli obiettivi erano perseguiti mediante il ricorso a Interest Rate Swap (IRS) e swaption”, spiegava la Cannata in audizione in Parlamento nel 2015. Tradotto: fino al 2005, quando i governi avevano bisogno di soldi, spostavano un po’ di interessi sul futuro (“rimodulazione dei flussi). Poi è rimasta soltanto l’attività di gestione della durata del debito: emettere solo debito a breve termine è troppo pericoloso perché lo Stato si espone al rischio di non trovare chi lo rifinanzia in condizioni di tensione sul mercato; emettere a lungo termine costa molto. Quindi si usano i derivati per rendere stabili i flussi e allungare con questi strumenti la durata effettiva del debito senza sostenerne il costo corrispondente ( per questo, notano sempre al Tesoro, al “costo” del derivato vanno sottratti i risparmi dovuti ad aver allungato la durata a posteriori).
Negli anni dello spread, e fino al 2016, le perdite da derivati diventano ingenti, dai 3,6 miliardi del 2012 ai 4,2 del 2016, ma per ragioni diverse rispetto alla fase Tremonti-Siniscalco: nel momento in cui il mercato colpiva il debito italiano, usare strumenti derivati era uno dei pochi sistemi a disposizione per i tecnici del ministero per evitare che si creasse il dramma atteso, quello di una domanda insufficiente alle aste del nuovo debito pubblico. Quando poi la Bce inizia a tagliare i tassi di interesse come reazione alla crisi, gli strumenti assicurativi comprati dal Tesoro per contenere i danni in caso di aumento dei tassi diventano fonte di perdite, come quando si paga una (costosa) assicurazione per proteggersi da un evento che si verifica. Il deputato del Pd Giampaolo Galli, alla Camera, ha fatto notare però che il danno è inferiore a quello che sembra: tra 2013 e 2016 il costo dei derivati registrato da Eurostat e Istat è stato di 24 miliardi e il risparmio dovuto al calo degli interessi frutto delle politiche della Bce esattamente 24 miliardi. Se i tassi fossero stati più alti, le perdite da derivati sarebbero risultate inferiori.
Quando i politici hanno smesso di usare i derivati per aggiustare i bilanci – e dal 2010 con le nuove norme è quasi impossibile e dal 2014 sono vietati agli enti locali – anche questa forma sofisticata di finanza sembra essere diventata più innocua.
La tentazione
Fino al 2005 vengono usati per avere risorse subito spostando i costi sul futuro miliardi Il valore del portafoglio contratti a prezzi di mercato Fine anni Novanta Hanno permesso di ridurre il deficit per entrare nell’euro, ma senza troppi strascichi miliardi Il risparmio 2013-2016 sui tassi dovuto alla Bce