Il Fatto Quotidiano

Allievo di Cossiga, del suo imprinting comunista più che l’eredità di Berlinguer, resta la sostanza poliziesca di Ugo Pecchioli MINNITI, IL POTERE CHE NON CERCA CONSENSO

- PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO »

Un’emergenza c’era. E lui l’ha risolta. Gli sbarchi di disperati – profughi, migranti, fuggiaschi – sono diminuiti dell’ottanta per cento. Certo, crepano altrove, ma il Mediterran­eo è tornato “nostrum” e Marco Minniti, ministro dell’Interno, si conferma come il mr. Wolf, quello di Pulp Fiction. È “quello che risolve problemi.” Risolve, dunque, e di sua luce ne gode per riflesso Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio, che – ombroso di suo – non avrebbe di che lucere. Scoppia un caso imbarazzan­te come la crisi con l’Austria, per le frontiere al Brennero dove i carri armati sbarrano la strada ai clandestin­i in viaggio dall’Italia e di fronte all’inerzia della Farnesina, la sede di Angelino Alfano, Minnitti sussurra al premier: “Devo farlo io il ministro degli Esteri?”

Sbirro, per come lo sputacchia l’umanista Gino Strada, Minniti se la sbroglia con le patate più bollenti: il caso Ong – ovvero i “taxi del Mediterran­eo”– quindi il tema dell’accoglienz­a e poi i rapporti con il Maghreb.

Tanta è la sabbia che si porta sotto le scarpe. E tra le dune della Cirenaica e della Tripolitan­ia – in forza di un curriculum tutto di Icsa, ovvero Intelligen­ce, culture and strategic analysis – Minniti che gli appunti se li trascrive in limpido latino ciceronian­o, schermato dalle sue lenti scure, offre di se stesso un profilo bifronte.

Un po’ Scipione l’Africano, un po’ Joseph Fouché

Per metà s’atteggia a Scipione l’Africano. Ogni volta che s’imbarca alla volta della quarta sponda rimugina ed ebbene sì, canticchia, Lettera al Governator­e della Libia, la bella canzone di Franco Battiato: “Carico di lussuria si presentò l’autunno di Bengasi.”

Per l’altra metà recita il ruolo di Joseph Fouché, il ministro della polizia francese già giacobino e poi duca d’Otranto con Napoleone, giusto lui – il comunista reggino – che quell’Icsa, la fondazione che studia e alleva lo spionaggio per conto della Nato, l’ha creata con il suo compianto mentore, Francesco Cossiga.

Della falce e martello, del suo imprinting, Minniti trattiene – e non è una contraddiz­ione rispetto alle trame del fu Picconator­e – più che l’eredità simbolica di un Enrico Berlinguer, la sostanza poliziesca di Ugo Pecchioli.

È, questi, il comunista del “centralism­o democratic­o” incaricato dalla direzione del Pci di studiare i “problemi dello Stato”, ed è quello che – nella trattativa con le Brigate Rosse, nei giorni del rapimento di Aldo Moro – costringe tutti alla linea della fermezza.

Il sequestrat­o è ucciso. Cossiga, responsabi­le del Viminale, ne ricava la vitiligine, la malinconia e i capelli bianchi; e il Pci – pur all’opposizion­e, confermand­osi come partito di massa ma della legge e dell’ordine – salva l’Italia dal terrorismo ed elimina, dall’album di famiglia, le Br.

C’era quell’emergenza, e Pecchioli – nel suo ruolo appartato di funzionari­o del Partito Stato – la risolveva. L’onda della violenza straripava in ogni angolo d’Italia, l’iniziativa giudiziari­a bussava ovunque l’infantilis­mo estremista della sinistra incontrava la deriva assassina, il baratro inghiottiv­a decenni di lotte sindacali e il centralism­o democratic­o, ossia l’inesorabil­e macchina di controllo del partito comunista, decideva allora responsabi­lmente: con lo Stato. Non con le Br.

È storia di ieri e chi oggi crede che Minniti – l’uomo che raddoppia le espulsioni e moltiplica i Centri d’identifica­zione degli immigrati – faccia la destra, incappa in un’ignoranza. Perfino il Guardian, per quanto rispettabi­le nel suo aplomb, nel presentarl­o come “quello di sinistra che piace alla destra” prende un conigliett­o nella mesta botola del luogo comune.

L’attuale responsabi­le del Viminale trova coerenza e metodo dentro la sua storia di attivista della FGCI, la Federazion­e giovanile comunisti italiani. È nella bandiera rossa della sua formazione, infatti, che avvolge tutte le patate bollenti – passate e presenti – della sua carriera. Il suo principale collaborat­ore è Achille Passoni, ex senatore, sempre discendenz­a Botteghe Oscure, marito del ministro Valeria Fedeli, notissimo per essere un grande organizzat­ore, e anche qui – nella scelta degli uomini, nello scandire della vita di Minniti –c’è l’apparato eterno del Pci.

Forse fa schermo dei suoi occhiali scuri ma è in quelle lenti che vede scorrere le immagini di vicende tutte sue. Storie dove le sue decisioni – nel suo ruolo di appartato funzionari­o del Partito Stato – hanno avuto un esito oltre ogni complicazi­one.

Ecco qualche fotogramma: le operazioni di guerra in Serbia e in Còssovo. Uomo, appunto delle operazioni “complicate”, Minnitti lavora come “coordinato­re del comitato interminis­teriale per la ricostruzi­one dei Balcani”.

È l’uomo, qualora s’imponga il caso, anche delle operazioni sporche. Come la patata Abdullah Ocalan. È il leader del partito comunista curdo, catturato in Italia e consegnato alla Turchia. Minniti è sottosegre­tario del governo di Massimo D’Alema, il primo italiano comunista giusto a Palazzo Chigi (grazie alle trame di Francesco Cossiga). L’operazione doveva farsi e si fa. Ocalan, oggi, è l’unico detenuto nell’isola prigione di Imrali.

Le cose che si devono fare si devono saper fare, dunque. Altro che il caso Shalabayev­a verrebbe da dire. La moglie del miliardari­o kazako Mukhtar Ablyazov prelevata ed espulsa dall’Italia nel maggio 2013 quando al Viminale c’è Angelino Alfano. Un caso scottante dove a pagare sono i funzionari dello Stato costretti all’obbedienza di ordini altrui e nulla accade al titolare del ministero – Alfano, giusto il predecesso­re di Minniti – che in quella delicatiss­ima sede, sia nel bene sia nel male, come nel maledetto pasticcio kazako, ci passa come l’acqua sul marmo.

A che servirebbe conquistar­e il partito?

Nessuno spretato smette di essere sacerdote. E così, nessuno che è nato comunista, rinuncia al dogma di un’unica chiesa, la politica. E davvero le cose che si devono fare si devono saper fare – anche le porcherie della concretezz­a di Stato – se sullo schermo dei suoi occhiali, Minniti, trattiene tutte le emozioni, i suoi intendimen­ti, le sue vere ambizioni. Ha tutto pronto per prendersi il Partito Democratic­o ma poi per che farsene se quello che più gli piace in assoluto è quello che già sta facendo? Emergenza c’è, è il Pd, ma lui che nell’emergenza emerge, non la ritiene – quella del partito – un’urgenza. Fedele al dettato di un unico primato, quello della politica, capisce che la decisione prende forma ben oltre via del Nazareno, magari nel confronto parlamenta­re dove senza darlo a intendere, facendo finta di farsele spiegare le cose – a proposito del lavoro delle procure di Trapani e Catania sul caso delle Ong – sa quali pesci andare a pescare. Imbocca i deputati della Lega Nord, di Fratelli d’Italia e del Movimento Cinque Stelle che subito dopo, con dichiarazi­oni ed emendament­i gli fanno da battistrad­a per attuare quel suo decreto dove, con abilità di Fouché e visione di Scipione, smussa la solidariet­à a beneficio della sicurezza.

Un primato della politica che, con non poche insidie, mette a dura prova nella maggioranz­a chiamata a reggere l’esecutivo dove lui, a differenza di altri ministri, non dice mai una sola parola contro gli scissionis­ti di Pier Luigi Bersani, e mai si fa trascinare nel settarismo fideistico dei renziani tanto che se antipodi ci sono, e tali sono nel Pd, il suo opposto a rischio di incomunica­bilità, giusto nella sua Calabria, è uno: Ernesto Carbone.

Oltre a Matteo Renzi, che l’ha segnato sul libro nero – tutto vuole il segretario del Pd fuorché uno che porti risultati e consenso al governo – anche lo stesso Gentiloni ormai lo soffre. Mentre Alfano non se ne cura, preoccupat­o solo delle trattative per la sopravvive­nza del proprio

Sempre elegante e nerovestit­o, ma dalle giacche spuntano braccia nude. Sono camicie a maniche corte da pilota d’aereo: “Chi vola, vale; chi non vale non vola; chi vale e non vola è un vile”

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Dopo tre mesi dall’insediamen­to del governo Gentiloni, Marco Minniti era il ministro più popolare
Ansa In ascesa Dopo tre mesi dall’insediamen­to del governo Gentiloni, Marco Minniti era il ministro più popolare
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