Zone economiche speciali, l’ultima occasione per il Sud
gli ultimi decenni nei quali le misure di intervento per il Mezzogiorno erano state bandite dal vocabolario della politica economica italiana, finalmente si assiste a una rinnovata attenzione alla questione meridionale. Il 12 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge 91, con disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno, convertito in legge il 3 agosto. Tra gli interventi previsti, sono state istituite le zone economiche speciali (Zes). Per Zes si intende una zona geograficamente limitata e chiaramente identificata, nella quale le aziende già operative, e quelle che si insedieranno, potranno beneficiare di speciali condizioni per gli investimenti e per lo sviluppo.
I VANTAGGI si traducono in benefici fiscali e in semplificazioni amministrative: il credito d’imposta viene elevato fino a 50 milioni di euro per ciascun investimento nelle Zes, mentre si punta su procedure semplificate e adempimenti basati su criteri derogatori, fissati con decreto del presidente del Consiglio, su proposta del ministro della Coesione territoriale e il Mezzogiorno. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge in Gazzetta, saranno fissate modalità e criteri per l’istituzione delle Zes. Poi, con successivi provvedimenti di governo, saranno istituite le singole zone.
Le Regioni Campania e Calabria si sono già candidate a essere i primi luoghi per le Zes, avendo approvato provvedimenti di giunta che definiscono criteri per la costituzione delle aree nelle quali saranno operativi i meccanismi di agevolazione. I porti di Napoli, Salerno e Gioia Tauro saranno i baricentri di questa innovazione.
Dopo la crisi iniziata nel 2007, il divario territoriale nel nostro Paese si è dilatato. Solo di recente cominciano ad emergere, in alcune aree del Mezzogiorno, segnali di inversione di tendenza, che vanno incoraggiati e rafforzati. Serve una accelerazione che non può essere data solo dalle forze endogene del mercato. Va rinnovata la cassetta degli attrezzi della politica economica.
LE ZES SI SONO AFFERMATE nel mondo come laboratori per l’attrazione degli investimenti e incubatori di innovazione, capaci di promuovere sviluppo produttivo e occupazionale. Oggi esi- stono nel mondo oltre 4.500 zone economiche speciali, istituite in 135 nazioni, che contribuiscono al mantenimento di circa 70 milioni di posti di lavoro. Nella sola Unione europea esistono formalmente 16 Zes operative, di cui 14 in Polonia. L’esperienza polacca mostra risultati interessanti: sono stati creati oltre 287.000 nuovi posti di lavoro tra 2005 e 2015, con attrazione di investimenti pari a 170 miliardi di euro (l’Italia è il quinto investitore nelle Zes polacche ). Nelle aree in cui è stata istituita una Zes, la disoccupazione è inferiore del 2-3%, e il Pil più alto del 7-8% rispetto alla media delle altre aree. Visti i risultati, il governo polacco ha deciso di prorogare gli effetti temporali delle Zes fino al 2016, invece che al 2020.
Nella individuazione del perimetro delle Zes, il governo italiano ha scelto il criterio in base al quale l’area, anche non territorialmente adiacente, deve presentare un nesso economico-funzionale che comprenda almeno un’area portuale, collegata alla rete transeuropea dei trasporti.
Il legame tra attrazione degli investimenti produttivi e adeguatezza logistica costituisce una delle chiavi di volta per l’efficacia delle politiche industriali e per il recupero di competitività dei territori. Non contano più solo lavoro e capitali per generare produttività, ma anche competenze e connessioni. Serve anche la capacità di far crescere la dimensione delle imprese e di puntare sui settori a elevato contenuto tecnologico, per modificare la traiettoria di una specializzazione manifatturiera ancora concentrata sui settori maturi.
CON LE ZES SI APRE una nuova stagione per le politiche di sviluppo nel Mezzogiorno. Né incentivi a pioggia, né intervento diretto dello Stato nell’economia. Le forze produttive potranno contare una cornice di maggiore competitività determinata da strumenti di semplificazione, crediti di imposta adeguati per la realizzazione di investimenti, contiguità ad aree già dotate di infrastrutture e di servizi per la logistica.
Quando saranno adottati dal governo i provvedimenti attuativi del decreto 91, la palla passerà al tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, che dovrà dimostrare di essere pronto all’appuntamento dell’innovazione.
Se vogliamo lavorare perché l’Italia superi la grave crisi industriale e sociale dell’ultimo decennio, una delle chiavi attraverso le quali è possibile riaprire la porta dello sviluppo è l’attivazione di una nuova politica economica: le zone economiche speciali possono essere uno strumento efficace in questa direzione.
* presidente della Autorità di Sistema Portuale del Tirreno Centrale ▶L’ULTIMANOTIZIA
a fare scalpore è stata quella della proposta di acquisto della Fiat Chrysler da parte del gruppo cinese Great Wall Motors. Pochi mesi prima era stata la volta del Milan, passato nelle mani della cordata del finanziere cinese Li Yonghong. Poi, nel giugno 2016, a entrare nella galassia cinese è stata l'Inter di
Moratti con l'urlo di incoraggiamento "Fozza Inda" del nuovo socio di maggioranza Zhang Jindong, il numero uno del colosso cinese Suning. Ma quell’esclamazione cult racconta di più di un fenomeno che sembravacircoscritto ad analisti economici e finanziari: l'Italia è diventata la meta principale degli investimenti cinesi in Europa. Ma nel libro “Fozza Cina” – edito dalla Baldini&Castoldi e scritto da Sabrina Carreras e Mariangela Pira – non si parla dei “cinesi d'Italia” di seconda o terza generazione che acquistano ristoranti, parrucchieri e negozi, ma dei grandi capitali che si muovono da Pechino alla conquista del Made in Italy. Pirelli, Ferretti Yatch, Benelli Moto, Krizia e l'olio Berio e Sagra, tanto per citare i casi più famosi, da qualche anno parlano cinese. Le università italiane sono prese d’assalto da un esercito di studenti cinesi desiderosi di apprendere il nostro know how da spendere poi in patria. La domanda allora è: l’Italia sta diventando una colonia cinese? E a che prezzo visto che i nuovi acquirenti sono perlopiù fondi sovrani e società a controllo statale con dirigenti scelti dal partito? Tanto più che gli investimenti cinesi non si sono limitati al calcio e alle grandi firme, ma si sono estesi al salotto buono della nostra finanza, alle banche e a settori delle telecomunicazioni e dell'energia. Per giocare a questo tavolo con carte alla pari c’è una chance da non perdere: definire regole europee comuni che ancora non ci sono.
Classe dirigente Altrove funzionano, qui bisogna capire se c’è un tessuto sociale in grado di favorire l’innovazione