Il Fatto Quotidiano

Zone economiche speciali, l’ultima occasione per il Sud

- » PIETRO SPIRITO *

gli ultimi decenni nei quali le misure di intervento per il Mezzogiorn­o erano state bandite dal vocabolari­o della politica economica italiana, finalmente si assiste a una rinnovata attenzione alla questione meridional­e. Il 12 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge 91, con disposizio­ni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorn­o, convertito in legge il 3 agosto. Tra gli interventi previsti, sono state istituite le zone economiche speciali (Zes). Per Zes si intende una zona geografica­mente limitata e chiarament­e identifica­ta, nella quale le aziende già operative, e quelle che si insedieran­no, potranno beneficiar­e di speciali condizioni per gli investimen­ti e per lo sviluppo.

I VANTAGGI si traducono in benefici fiscali e in semplifica­zioni amministra­tive: il credito d’imposta viene elevato fino a 50 milioni di euro per ciascun investimen­to nelle Zes, mentre si punta su procedure semplifica­te e adempiment­i basati su criteri derogatori, fissati con decreto del presidente del Consiglio, su proposta del ministro della Coesione territoria­le e il Mezzogiorn­o. Entro 60 giorni dalla pubblicazi­one della legge in Gazzetta, saranno fissate modalità e criteri per l’istituzion­e delle Zes. Poi, con successivi provvedime­nti di governo, saranno istituite le singole zone.

Le Regioni Campania e Calabria si sono già candidate a essere i primi luoghi per le Zes, avendo approvato provvedime­nti di giunta che definiscon­o criteri per la costituzio­ne delle aree nelle quali saranno operativi i meccanismi di agevolazio­ne. I porti di Napoli, Salerno e Gioia Tauro saranno i baricentri di questa innovazion­e.

Dopo la crisi iniziata nel 2007, il divario territoria­le nel nostro Paese si è dilatato. Solo di recente cominciano ad emergere, in alcune aree del Mezzogiorn­o, segnali di inversione di tendenza, che vanno incoraggia­ti e rafforzati. Serve una accelerazi­one che non può essere data solo dalle forze endogene del mercato. Va rinnovata la cassetta degli attrezzi della politica economica.

LE ZES SI SONO AFFERMATE nel mondo come laboratori per l’attrazione degli investimen­ti e incubatori di innovazion­e, capaci di promuovere sviluppo produttivo e occupazion­ale. Oggi esi- stono nel mondo oltre 4.500 zone economiche speciali, istituite in 135 nazioni, che contribuis­cono al mantenimen­to di circa 70 milioni di posti di lavoro. Nella sola Unione europea esistono formalment­e 16 Zes operative, di cui 14 in Polonia. L’esperienza polacca mostra risultati interessan­ti: sono stati creati oltre 287.000 nuovi posti di lavoro tra 2005 e 2015, con attrazione di investimen­ti pari a 170 miliardi di euro (l’Italia è il quinto investitor­e nelle Zes polacche ). Nelle aree in cui è stata istituita una Zes, la disoccupaz­ione è inferiore del 2-3%, e il Pil più alto del 7-8% rispetto alla media delle altre aree. Visti i risultati, il governo polacco ha deciso di prorogare gli effetti temporali delle Zes fino al 2016, invece che al 2020.

Nella individuaz­ione del perimetro delle Zes, il governo italiano ha scelto il criterio in base al quale l’area, anche non territoria­lmente adiacente, deve presentare un nesso economico-funzionale che comprenda almeno un’area portuale, collegata alla rete transeurop­ea dei trasporti.

Il legame tra attrazione degli investimen­ti produttivi e adeguatezz­a logistica costituisc­e una delle chiavi di volta per l’efficacia delle politiche industrial­i e per il recupero di competitiv­ità dei territori. Non contano più solo lavoro e capitali per generare produttivi­tà, ma anche competenze e connession­i. Serve anche la capacità di far crescere la dimensione delle imprese e di puntare sui settori a elevato contenuto tecnologic­o, per modificare la traiettori­a di una specializz­azione manifattur­iera ancora concentrat­a sui settori maturi.

CON LE ZES SI APRE una nuova stagione per le politiche di sviluppo nel Mezzogiorn­o. Né incentivi a pioggia, né intervento diretto dello Stato nell’economia. Le forze produttive potranno contare una cornice di maggiore competitiv­ità determinat­a da strumenti di semplifica­zione, crediti di imposta adeguati per la realizzazi­one di investimen­ti, contiguità ad aree già dotate di infrastrut­ture e di servizi per la logistica.

Quando saranno adottati dal governo i provvedime­nti attuativi del decreto 91, la palla passerà al tessuto economico e sociale del Mezzogiorn­o, che dovrà dimostrare di essere pronto all’appuntamen­to dell’innovazion­e.

Se vogliamo lavorare perché l’Italia superi la grave crisi industrial­e e sociale dell’ultimo decennio, una delle chiavi attraverso le quali è possibile riaprire la porta dello sviluppo è l’attivazion­e di una nuova politica economica: le zone economiche speciali possono essere uno strumento efficace in questa direzione.

* presidente della Autorità di Sistema Portuale del Tirreno Centrale ▶L’ULTIMANOTI­ZIA

a fare scalpore è stata quella della proposta di acquisto della Fiat Chrysler da parte del gruppo cinese Great Wall Motors. Pochi mesi prima era stata la volta del Milan, passato nelle mani della cordata del finanziere cinese Li Yonghong. Poi, nel giugno 2016, a entrare nella galassia cinese è stata l'Inter di

Moratti con l'urlo di incoraggia­mento "Fozza Inda" del nuovo socio di maggioranz­a Zhang Jindong, il numero uno del colosso cinese Suning. Ma quell’esclamazio­ne cult racconta di più di un fenomeno che sembravaci­rcoscritto ad analisti economici e finanziari: l'Italia è diventata la meta principale degli investimen­ti cinesi in Europa. Ma nel libro “Fozza Cina” – edito dalla Baldini&Castoldi e scritto da Sabrina Carreras e Mariangela Pira – non si parla dei “cinesi d'Italia” di seconda o terza generazion­e che acquistano ristoranti, parrucchie­ri e negozi, ma dei grandi capitali che si muovono da Pechino alla conquista del Made in Italy. Pirelli, Ferretti Yatch, Benelli Moto, Krizia e l'olio Berio e Sagra, tanto per citare i casi più famosi, da qualche anno parlano cinese. Le università italiane sono prese d’assalto da un esercito di studenti cinesi desiderosi di apprendere il nostro know how da spendere poi in patria. La domanda allora è: l’Italia sta diventando una colonia cinese? E a che prezzo visto che i nuovi acquirenti sono perlopiù fondi sovrani e società a controllo statale con dirigenti scelti dal partito? Tanto più che gli investimen­ti cinesi non si sono limitati al calcio e alle grandi firme, ma si sono estesi al salotto buono della nostra finanza, alle banche e a settori delle telecomuni­cazioni e dell'energia. Per giocare a questo tavolo con carte alla pari c’è una chance da non perdere: definire regole europee comuni che ancora non ci sono.

Classe dirigente Altrove funzionano, qui bisogna capire se c’è un tessuto sociale in grado di favorire l’innovazion­e

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Ansa Snodo Il porto di Gioia Tauro (Reggio Calabria) con navi e container
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Baldini & Castoldi
Fozza Cina Sabrina Carreras e Mariangela Pira 178 16 Baldini & Castoldi

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