Il Fatto Quotidiano

Raqqa, tanfo di morte: sotto le macerie la tomba dell’Isis

Linea del fronte Tra i teloni neri stesi tra i palazzi per “accecare” i droni Usa e che ora svolazzano, l’odore dei cadaveri rivela le vittime dei raid: jihadisti e civili insieme

- » CORRADO FORMIGLI Raqqa (Siria)

Il blindato sul quale saliamo è made in Kobane, un vecchio Toyota Land Cruiser sfondato completame­nte avvolto in una blindatura da fabbro ferraio. Il soldato curdo-siriano al volante sostiene che questo grosso aggeggio puzzolente possa resistere anche alle mine anticarro, ma appena entrati ogni dubbio diventa lecito. Comunque ormai è tardi per tornare indietro, sicché ci strizziamo nel vano posteriore per far posto a una decina di casse d’acqua destinate al fronte. Prima di partire Jamal, un ragazzo dolcissimo che ci ha accompagna­ti fin qui, unisce le mani in preghiera e si raccomanda: “Ci sono mine antiuomo disseminat­e ovunque, ci sono cecchini dell’Isis nascosti dietro le finestre, ci sono i droni del califfo che sganciano bombe a raffica: mi raccomando, state attenti e seguite le istruzioni”. Così si va. E la sensazione di addentrars­i in un ignoto assoluto si fa sempre più forte via via che la bestia cigolante corre verso il centro della città maledetta. Una svolta, un’altra, un’altra ancora. Il mio amico Adib, compagno di tanti viaggi nel cuore nero del Califfato, si sdraia per reggere gli scossoni. Il filmmaker Paco stabilizza miracolosa­mente la telecamera. Ho addosso il giubbetto antiproiet­tile, ma ho tolto il caschetto per farmi spazio, finché una testata sanguinosa contro il soffitto dell’autoblindo mi convince a rimetterlo.

Raqqa. È il viaggio che mi manca per chiudere il cerchio intorno alla vicenda più oscura e violenta degli ultimi decenni: la nascita, il dilagare, la sconfitta dello Stato islamico in Siria e in Iraq.

Nel settembre del 2014 eravamo nel Kurdistan irachenope­r raccontare il genocidio degli yazidi, avvenuto ne ll ’ indifferen­za dell’oc cidente a opera degli uomini neri di Al Baghdadi (in fondo, cos’era allora per il mondo l’Isis se non una vicenda regionale, uno dei tanti modi in cui i musulmani si ammazzavan­o tra loro?).

Qualche mese dopo, entravamo a Kobane occupata dai tagliagole. Poi Sinjar, la patria degli yazidi liberata dai curdi proprio nei giorni della strage del Bataclan. E ancora, la strage di Karrada a B aghdadcon i suoi 324 morti in- nocenti, tutti musulmani, carneficin­a ignorata dai media italiani.

In seguito siamo entrati a Mosul, dove al posto dei curdi c’era l’esercito iracheno assai più equipaggia­to: anche qui, i terroristi dello Stato islamico usavano mine nascoste per rendere difficile il compito dei liberatori.

E ora, Raqqa. La capitale del Califfato. La città-bunker dei capi militari e politici di Daesh, il luogo dove i cervelli del jihad elaboravan­o strategie di propaganda e attentati su scala globale.

Oggi, la città che si svela dietro i vetri dell’autoblindo, spessi e scheggiati dalle pallottole, è gialla e nera di polvere e fuoco.

Il blindato blocca le gomme davanti a una palazzina mezza sventrata, una nocta , come la chiamano i curdi, un avamposto incuneato nel territorio Daesh.

Attraversi­amo di corsa lo sterro che ci separa dall’ingresso, messi in guardia sulla presenza di cecchini nasco- sti. Al secondo piano dell’edificio, mi viene incontro un ragazzo col sorriso largo e la mano tesa. È italiano, ma non vuole dirmi il nome e chiede che il suo volto venga oscurato in tv: “Mia madre non sa che sono qui”.

Mi racconta che da nove mesi è in Siria, membro della Brigata internazio­nale dello Ypg, l’esercito curdo-siriano affratella­to al Pkk turco. Ma l’idealismo iniziale che lo ha spinto qui, su uno dei fronti più caldi al mondo, si va spegnendo, stemperato dalla fatica, dall'assuefazio­ne, dalla nostalgia di casa. Vuole tornare a casa, in Lombardia. Ma non prima di aver visto l’Isis sconfitto a Raqqa.

Slalom tra le paure Ci sono le mine a terra, i cecchini tra le rovine e i velivoli che sganciano bombe

L’ultimo tassello

Il racconto di tre anni dalla nascita, il dilagare e la sconfitta dello Stato islamico

“Mia madre non sa che sono qui”

“Il nemico dov'è?”, chiedo guardandom­i nervoso attorno. “Può essere ovunque. Anche sotto di noi, in uno dei mille tunnel scavati per sfuggire alle bombe americane”. Sicché mi figuro tagliagole con il kalashniko­v puntato sotto i nostri piedi, uomini-ratto con la barba lunghissim­a e il grugnito animalesco da bestie braccate.

E poi ci sono le mine, celate dappertutt­o. Il terrore dei curdi (quindi da questo momento anche nostro): “Non abbiamo gli artificier­i per trovarle e disinnesca­rle, occhio a dove metti i piedi”. La linea del nemico è a cinquanta metri da noi, segnata da un telo nero che, nelle intenzioni curde, serve a chiudere la visuale ai tiratori.

Da una nocta all’altra, sempre di corsa, col cuore in gola, incontro soldati curdi in ciabatte esausti dai turni di

Stasera in tv Su La7, alle 21.10, il reportage di Corrado Formigli “Nessuna pietà”, apre la nuova stagione di “Piazzapuli­ta” con le immagini dal fronte della “capitale” dell’Isis sotto assedio

guardia, snervati dal caldo, il poco cibo, la lunga attesa che i caccia americani aprano loro la strada sganciando bombe dove si nascondono i terroristi. Il sistema è questo: una noctasegna­la presenze sospette in un edificio via radio al comando curdo. Questo avvisa gli americani dando loro le coordinate Gps. E siccome i curdi hanno già perso troppi uomini irrompendo nei covi dell’Isis e cadendo nelle loro trappole, la tecnica più rapida è delegare alle bombe Usa la soluzione del problema.

“E se nel palazzo colpito ci sono anche civili?” chiedo al soldato italiano. “Noi non possiamo saperlo”, chiude il discorso lui. Così la caccia agli ultimi Daesh rimasti in città rischia di trasformar­si in una carneficin­a.

Me ne rendo conto quando lascio il quartiere di Dahariya, sul fronte occidental­e, per trasferirm­i su quello orientale, proprio a ridosso della città vecchia.

Lì, una volta arrivati, chiediamo di essere portati sulla linea del fuoco, a pochi metri dalla piazza delle esecuzioni, dove lo Stato islamico giustiziav­a chi infrangeva le regole. Dopo un breve conciliabo- lo, i militari ci fanno firmare un foglio nel quale ci assumiamo ogni responsabi­lità nel caso un cecchino o una bomba ci facciano fuori. Poi ci addentriam­o nella città vecchia.

È solo in questo momento, mentre l’Hu mvee corazzato avanza lentamente fra i detriti, che mi rendo conto di non aver mai visto in vita mia una città rasa al suolo come questa. Non c'è più niente in piedi, la distruzion­e è totale, irreversib­ile, agghiaccia­nte. Raqqa è finita, cancellata dalle bombe. Di tanto in tanto il tiro di un cecchino nemico rimbalza sulla blindatura, mentre l'autista è sempre più innervosit­o dal dover scarrozzar­e giornalist­i in zone troppo pericolose anche per lui: “Non è questione di cecchini, l’Isis ha ancora qualche mortaio e i razzi Milan, evitiamo di rischiare troppo”.

Quando finalmente possiamo sgusciare fuori dall’Humvee, lo scenario è apocalitti­co.

Nel centro di Raqqa, tutti i palazzi sono stati abbattuti. I teli che coprivano le strade per chiudere la visuale ai droni americani penzolano come stracci sporchi dai pilastri di cemento. Ma quello che più mi colpisce è l’odore. Spaventoso, indimentic­abile. Un tanfo di corpi decomposti, un’esalazione di marcio che può voler dire solo u- na cosa: sotto l’immensa mole di macerie ci sono tantissimi corpi.

Milioni di mosche si posano dappertutt­o, si avventano sulle nostre facce, sulle nostre mani, impazzite per la presenza dei cadaveri, mentre cani e gatti randagi si aggirano eccitati tra i detriti.

Nugoli di mosche sul regno del califfo nero

Quanti sono i morti? Nessuno te lo dice, numeri ufficiali non ce ne sono. Ma certo quei corpi non sono solo di terroristi. Ci sono certamente civili che non hanno fatto a tempo a fuggire o erano tenuti in ostaggio dai terrori- sti. Vittime collateral­i, errori di calcolo, chiamatele come volete. È il prezzo pagato per sconfigger­e l’Isis. Che muore con Raqqa e con migliaia di suoi abitanti innocenti. Mentre chi sopravvive, mogli e bambini dei jihadisti, vengono chiusi in cella, fuori dal controllo degli organismi internazio­nali. Ne ho incontrato uno, si chiama Mohammed e ha 13 anni. Me lo hanno portato coperto, poi gli hanno tolto il cappuccio per farmelo intervista­re. Alla fine se lo sono riportato via, incappucci­ato, nella prigione dove vive con gli adulti, piccolo soldato dell’Isis senza futuro.

A Raqqa il confine tra vittime e carnefici è sottile e a volte indecifrab­ile.

A Raqqa i diritti sono un lusso e le organizzaz­ioni internazio­nali non entrano. Perché è sporca, schifosa e ingiusta anche la più sacrosanta delle guerre.

Cecità occidental­e Qui le organizzaz­ioni internazio­nali non entrano e i diritti sono un lusso

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Reuters Riconquist­a Soldati dell’esercito siriano avanzano nel centro della città. A destra, la distruzion­e della città vecchia
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I miliziani curdo-siriani che combattono a Raqqa e una delle postazioni in una “nocta” gli avamposti sul fronte
Liberatori I miliziani curdo-siriani che combattono a Raqqa e una delle postazioni in una “nocta” gli avamposti sul fronte
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Blindato L’Humvee avanza nelle strade colme di macerie di uno dei due fronti principali

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