Il Fatto Quotidiano

COSA DOBBIAMO AL “RAGAZZINO” ROSARIO LIVATINO, UCCISO 27 ANNI FA

- » LUCA TESCAROLI

Il 21 settembre 1990 veniva eseguito con ferocia l’omicidio del giudice Rosario Livatino, in contrada san Benedetto di Favara, lungo la strada statale n. 640 da Canicattì per Agrigento, una Fiat Uno, con due sicari a bordo, affiancava e superava la Fiesta sulla quale viaggiava il giudice non ancora 38enne, costringen­dolo a fermarsi, mentre sopraggiun­geva una moto Honda con a bordo altri due membri del commando. E subito una pioggia di colpi crivellava la macchina di quel magistrato, che, colpito a una spalla, invano cercava scampo nell’arida sterpaglia del vallone, ove veniva rincorso e braccato dai killer che gli toglievano la vita.

A 27 ANNI di distanza, possiamo dire, dopo la celebrazio­ne di tre processi le cui condanne sono divenute definitive, che dieci mafiosi, appartenen­ti ai gruppi stiddari di Palma di Montechiar­o e di Canicattì, hanno un nome e quel delitto ha un perché. L’eliminazio­ne, con funzione preventiva e di vendetta, di Rosario Livatino, si è inserita in un contesto criminale di profondo e sanguinoso scontro mafioso, creatosi negli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta. Il delitto è stato ricondotto a ragioni di vendetta: punire un magistrato impegnato nel contrasto alla criminalit­à mafiosa per dare un segnale inequivoca­bile di potenza militare in seno alla Stidda e agli avversari di Cosa Nostra, un modo obliquo di mettersi in pari con la spietata eliminazio­ne del giudice Antonio Saetta e del figlio disabile Stefano, decretata ed eseguita da Cosa Nostra, nella mezzanotte tra domenica 25 e lunedì 26 settembre 1988, dodici giorni dopo l’agguato al giudice in pensione Alberto Giacomelli. Livatino sapeva bene i rischi che correva, ma rimase al suo posto, nonostante le minacce e gli avvertimen­ti, l’assenza dei mezzi e le singolari prudenze dei superiori. Un eroe moderno al quale il nostro Paese deve essere profondame­nte grato e che non può essere dimenticat­o per la sua lezione di profession­alità e dignità. Grato, innanzitut­to, per aver testimonia­to che l’adempiment­o del proprio dovere non può essere condiziona­to dall’interesse personale, dal compromess­o, dall’esistenza di pericoli e dal clamore mediatico che talvolta le azioni giudiziari­e assumono. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l’omertà, può essere sconfitta.

L’insegnamen­to che dobbiamo raccoglier­e dall’assassinio di Livatino è che il magistrato deve applicare la legge nel caso concreto e deve essere indipenden­te, dai poteri esterni e da quelli interni alla categoria di appartenen­za per poterlo fare compiutame­nte ed efficaceme­nte. Sia che eserciti la funzione del pubblico ministero, sia quella del giudicante, ha il compito di reprimere la criminalit­à nelle sue variegate manifestaz­ioni con tutti gli strumenti offerti dall’ordinament­o, con la peculiarit­à che il pm, in ragione dei compiti investigat­ivi attribuiti­gli, deve svolgere la propria funzione attraverso mezzi e forme diversi rispetto a quelli del giudice, il quale deve ricoprire una posizione di terzietà rispetto alla pretesa punitiva e alla linea difensiva dell’imputato, assicurand­o un giusto processo e la tutela delle garanzie per l’accusato, per le persone offese e i loro familiari. L’indipenden­za va salvaguard­ata con la scrupolosa osservanza delle regole da parte del magistrato e con la libertà della coscienza, con la riflession­e, con l’umiltà del proprio lavoro, con il coraggio e con la capacità di sacrificio e con il respingime­nto di qualsiasi tentativo di condiziona­mento e di incarichi che per la loro natura o per le implicazio­ni possano produrre interferen­ze nei compiti istituzion­ali.

QUELL’ASSASSINIO scosse il Paese e rappresent­ò la causa determinan­te per far approvare, nel gennaio del 1991, la prima normativa sui collaborat­ori di giustizia che, dando dignità giuridica all’istituto, ha fattivamen­te contribuit­o ad arginare il potere mafioso e offre anche l’occasione per riflettere sulla realtà che oggi viviamo, caratteriz­zata da una criminalit­à mafiosa che è profondame­nte mutata rispetto agli anni Novanta. I risultati ottenuti sono straordina­ri e sono frutto del sacrificio e dell’impegno da parte di molti, proprio in seno a quello stesso Stato, che per anni ha tollerato e, forse, contribuit­o al dilagare della criminalit­à organizzat­a. Nessun delitto “eccellente” al cuore dello Stato è più stato posto in essere da 23 anni. Ai nostri giorni, Cosa Nostra e Stidda sono meno pericolose di quanto non lo fossero negli anni Novanta. La Stidda diffusa nelle province di Agrigento, Caltanisse­tta, Enna e Ragusa, con propaggini in Germania (nella cittadina di Mannheim) e che aveva saputo infiltrars­i in alcune amministra­zioni locali come l’avevamo conosciuta – coacervo di clan feroci, federati e in contrappos­izione con Cosa Nostra – non esiste più. È stata scompagina­ta a seguito delle collaboraz­ioni con la giustizia delle figure apicali dei vari gruppi. Sono emerse strutture criminali nelle province di Catania, Ragusa e Siracusa che non hanno la forza di scontrarsi con Cosa Nostra e che, invece, coesistono con le famiglie di quest’ultimo sodalizio e che fanno affari assieme, come nel traffico di droga. La struttura di Cosa Nostra ha perduto l’unitarietà fortificat­asi nel governo dei corleonesi, assumendo connotati pulviscola­ri. Le componenti più evolute e dinamiche dell’universo mafioso improntano oggi il proprio agire sulla minimizzaz­ione dell’uso della violenza, si alimentano di servizi illegali che provengono da imprendito­ri e operatori economici in Italia e all’estero, i quali chiedono alle mafie servizi e prestazion­i che servono per abbattere i costi di produzione, prediligon­o agire come soggetti economici, facendo ricorso crescente a metodiche corruttive, peraltro mai abbandonat­e, cavalcando nel modo più spregiudic­ato la logica e la cultura del libero mercato, perché l’intimidazi­one non è più pagante. La corruzione presenta molti meno rischi: è più difficile scoprirla perché l’om er t à all’interno dei colletti bianchi supera quella mafiosa. Il forte debito di riconoscen­za nei confronti di Livatino impone l’i mp l em e nt o dell’attività preventiva, di intraprend­ere un rinnovamen­to morale della classe politica proiettato al rafforzame­nto della legalità.

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