Quanto sono divertenti gli insospettabili classici
IL CONGRESSOGli italianisti a convegno sulle forme del comico Tre giorni per scoprire che si può ridere anche con i grandi scrittori
“Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori” dice Jorge alla fine del Nome della rosa. Qui di seguito, siete avvertiti, peccheremo molto: siamo stati a Firenze, dove si è appena svolto il convegno degli italianisti, dal titolo “Le forme del comico”. Quale modo migliore per concludere idealmente l’estate che su queste pagine è stata dedicata ai grandi scrittori umoristici? Abbiamo seguito una giornata di lavori, quella dedicata al Novecento, per scoprire che ci si può divertire perfino a un seminario dell’accademia, tra lunghe plenarie, sessioni parallele e professori a congresso (nessun riferimento a quelli, pur spassosissimi, di David Lodge).
SI DISCUTE, con sempre maggior frequenza, sull’opportunità di far leggere a scuola i nostri classici: la tesi prevalente vuole l’imposizione responsabile della sindrome di rigetto dei cosiddetti giovani verso i polverosi letterati: troppo difficili, si dice, troppo lontani. La carrellata che segue, senza alcuna pretesa filologica rispetto ai rigorosi lavori congressuali, potrebbe convincere anche i più ostili. Del resto, “Ci sono regole fatte di sole eccezioni. Sono confe rma ti ssi me” ( Achille Campanile).
Il comico “comincia come gioco per trarre piacere dal libero impiego di parole e pensieri”, scrive Freud neIl motto di spirito. Lo cita, nella relazione su Carlo Dossi e Gadda, il professor Giorgio Patrizi dell’Università del Molise, che usa l’e pi s to la ri o de ll’Ingegnere per un viaggio nei registri – a lti/bassi, soprattutto barocchi – del padre del Pasticciaccio: “Il comico gaddiano nasce dalla costante mescolanza di registri linguistici: l’intreccio di significati bassi, quotidiani, banali con lessico e retorica alti, paludati”. Guardate che meraviglioso gioco manzoniano nella lettera ad Alberto Carocci del 22 febbraio del 1928 (Gadda commenta il suo forzato trasferimento a Milano): “Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pummarola che giungeva quasi ‘n coppa e con cui mi imbrodolavo (nei momenti di oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzio- naria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di maiale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupiscente e iridescente di smeraldino prezzemolo. Addio! O per lo meno, arrivederci.” “L’umorismo”, questa è una “nota azzurra” di Dossi, “è la letteratura dello scetticismo. L’umorismo è la continua accusa alle istituzioni umane”. Sarà per questo che ne abbiamo così bisogno, specie in u n’epoca in cui l’e sa lt a zi on e dell’individuo ci ha trasformati in una società di mitomani (dimentichi del famoso motto, sempre gaddiano, “l’io è il più lurido dei pronomi”). Il miglior antidoto è la lettura di Aldo Palazzeschi, ritratto nella bellissima relazione del professor Gino Tellini dell’Università di Firenze. “Gli uomini che prendono sul serio gli altri mi fanno compassione, quelli che prendono sul serio se stessi mi fanno sganasciare dalle risa”, scrive il poeta trentenne in una Spazzatura apparsa su “Lacerba” nel 1915. L’autoironia, la ginnastica dello sguardo che si volge oltre sé, serve a uscire dal “recinto dove fiorisce il culto dell’io, il culto dominante in buon parte della nostra letteratura”. O il “principio universale dei vizi umani” come lo definisce Leopardi nello Zibaldone. Vuol dire guardare con distacco prospettico le cose del mondo, una buona premessa per riuscire a ridere di sé e del resto. “Palazzeschi disintegra l’assolutezza dell’io e gli fa indossare i panni del saltimbanco”, spiega il professor Tellini. Il poeta perde l’aureola e l’ulivo, non è più vate (il comico novecentesco nasce anche come “rimedio” al titanismo egotico di D’Annunzio) e allora lasciamolo divertire: “Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie. Sono la spazzatura delle altre poesie”.
EPPURE L’UMORISMO è un genere sospetto. Lo spiega bene Oreste Del Buono nell’introduzione alle Opere di Achille Campanile, citata da Gino Ruozzi, professore dell’Alma Mater di Bologna, che ha illustrato le molte facce nel comico del Secolo breve, tra teatro, televisione, cinema e letteratura: “L’umorismo è sempre stato un genere sospetto nelle storie della letteratura italiana e, per la verità, non solo italiana. Forse perché i compilatori delle storie della letteratura internazionale, mancando di senso dell'’umorismo, non arrivano mai, o quasi, a valutare quale importanza possa avere in certe epoche l’umorismo non tanto per la letteratura, quanto per il costume, per la stessa vita mentale di una nazione”.