Il Fatto Quotidiano

Quanto sono divertenti gli insospetta­bili classici

IL CONGRESSOG­li italianist­i a convegno sulle forme del comico Tre giorni per scoprire che si può ridere anche con i grandi scrittori

- » SILVIA TRUZZI

“Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori” dice Jorge alla fine del Nome della rosa. Qui di seguito, siete avvertiti, peccheremo molto: siamo stati a Firenze, dove si è appena svolto il convegno degli italianist­i, dal titolo “Le forme del comico”. Quale modo migliore per concludere idealmente l’estate che su queste pagine è stata dedicata ai grandi scrittori umoristici? Abbiamo seguito una giornata di lavori, quella dedicata al Novecento, per scoprire che ci si può divertire perfino a un seminario dell’accademia, tra lunghe plenarie, sessioni parallele e professori a congresso (nessun riferiment­o a quelli, pur spassosiss­imi, di David Lodge).

SI DISCUTE, con sempre maggior frequenza, sull’opportunit­à di far leggere a scuola i nostri classici: la tesi prevalente vuole l’imposizion­e responsabi­le della sindrome di rigetto dei cosiddetti giovani verso i polverosi letterati: troppo difficili, si dice, troppo lontani. La carrellata che segue, senza alcuna pretesa filologica rispetto ai rigorosi lavori congressua­li, potrebbe convincere anche i più ostili. Del resto, “Ci sono regole fatte di sole eccezioni. Sono confe rma ti ssi me” ( Achille Campanile).

Il comico “comincia come gioco per trarre piacere dal libero impiego di parole e pensieri”, scrive Freud neIl motto di spirito. Lo cita, nella relazione su Carlo Dossi e Gadda, il professor Giorgio Patrizi dell’Università del Molise, che usa l’e pi s to la ri o de ll’Ingegnere per un viaggio nei registri – a lti/bassi, soprattutt­o barocchi – del padre del Pasticciac­cio: “Il comico gaddiano nasce dalla costante mescolanza di registri linguistic­i: l’intreccio di significat­i bassi, quotidiani, banali con lessico e retorica alti, paludati”. Guardate che meraviglio­so gioco manzoniano nella lettera ad Alberto Carocci del 22 febbraio del 1928 (Gadda commenta il suo forzato trasferime­nto a Milano): “Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pummarola che giungeva quasi ‘n coppa e con cui mi imbrodolav­o (nei momenti di oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzio- naria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di maiale, di panforte, e di altri vermiciatt­oli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicagl­ia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupisce­nte e iridescent­e di smeraldino prezzemolo. Addio! O per lo meno, arrivederc­i.” “L’umorismo”, questa è una “nota azzurra” di Dossi, “è la letteratur­a dello scetticism­o. L’umorismo è la continua accusa alle istituzion­i umane”. Sarà per questo che ne abbiamo così bisogno, specie in u n’epoca in cui l’e sa lt a zi on e dell’individuo ci ha trasformat­i in una società di mitomani (dimentichi del famoso motto, sempre gaddiano, “l’io è il più lurido dei pronomi”). Il miglior antidoto è la lettura di Aldo Palazzesch­i, ritratto nella bellissima relazione del professor Gino Tellini dell’Università di Firenze. “Gli uomini che prendono sul serio gli altri mi fanno compassion­e, quelli che prendono sul serio se stessi mi fanno sganasciar­e dalle risa”, scrive il poeta trentenne in una Spazzatura apparsa su “Lacerba” nel 1915. L’autoironia, la ginnastica dello sguardo che si volge oltre sé, serve a uscire dal “recinto dove fiorisce il culto dell’io, il culto dominante in buon parte della nostra letteratur­a”. O il “principio universale dei vizi umani” come lo definisce Leopardi nello Zibaldone. Vuol dire guardare con distacco prospettic­o le cose del mondo, una buona premessa per riuscire a ridere di sé e del resto. “Palazzesch­i disintegra l’assolutezz­a dell’io e gli fa indossare i panni del saltimbanc­o”, spiega il professor Tellini. Il poeta perde l’aureola e l’ulivo, non è più vate (il comico novecentes­co nasce anche come “rimedio” al titanismo egotico di D’Annunzio) e allora lasciamolo divertire: “Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie. Sono la spazzatura delle altre poesie”.

EPPURE L’UMORISMO è un genere sospetto. Lo spiega bene Oreste Del Buono nell’introduzio­ne alle Opere di Achille Campanile, citata da Gino Ruozzi, professore dell’Alma Mater di Bologna, che ha illustrato le molte facce nel comico del Secolo breve, tra teatro, television­e, cinema e letteratur­a: “L’umorismo è sempre stato un genere sospetto nelle storie della letteratur­a italiana e, per la verità, non solo italiana. Forse perché i compilator­i delle storie della letteratur­a internazio­nale, mancando di senso dell'’umorismo, non arrivano mai, o quasi, a valutare quale importanza possa avere in certe epoche l’umorismo non tanto per la letteratur­a, quanto per il costume, per la stessa vita mentale di una nazione”.

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 ?? LaPresse/Olycom ?? Maestri (anche) dell’umorismo Dall’alto, tre scrittori del Novecento: Achille Campanile, Carlo Emilio Gadda e Aldo Palazzesch­i
LaPresse/Olycom Maestri (anche) dell’umorismo Dall’alto, tre scrittori del Novecento: Achille Campanile, Carlo Emilio Gadda e Aldo Palazzesch­i

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