MOSTRIAMO AL CAIRO DI NON ESSERE SERVI
L’atteggiamento nei confronti del regime del Cairo non può continuare a essere opaco
Da ieri abbiamo al Cairo un nuovo ambasciatore, Giampaolo Cantini, chiamato dagli eventi a difendere gli interessi strategici del l’Italia possibilmente risparmiando quel poco di dignità nazionale sopravvissuto al cosiddetto ‘ caso Regeni’. La parte in commedia che gli ha assegnato il ministro degli Esteri Alfano è “seguire in via prioritaria le indagini” sulla morte del ricercatore. Se cercherà di accreditare questa fandonia (com’è ovvio in Egitto non v’è alcuna indagine in corso, il regime non può indagare su se stesso) l’ambasciatore si atterrà al copione fin qui approvato da quasi tutte le forze politiche. L’inchiesta conoscerà progressi, dopo i recenti “ulteriori passi in avanti” (ancora Alfano) che hanno permesso al Pd renziano di raggiungere una sofferta convinzione: quello di Regeni fu “un omicidio politico” (Luigi Zanda, con il consueto acume). Però un omicidio controverso – ancora Zanda – sul quale ciascuno potrà pensarla come vuole ( che siano stati i nemici di al-Sisi? La britannica BP per rovinare gli affari dell’Eni? I marziani?) fin quando l’inchiesta non avrà fatto chiarezza, evento che il Pd sa benissimo non essere all’orizzonte. Dunque si indagherà per finta, ma con rinnovata lena e in ogni direzione: “(L’uni- versità di) Cambridge deve fare assoluta chiarezza”, ammonisce Renzi, che da premier gestì la vicenda con assoluta opacità. Rilanciata anche da Alfano, amata dalla destra, la ‘pista Cambridge’ fa di Regeni uno sprovveduto manovrato a sua insaputa dal MI6 britannico attraverso una consorteria di accademici, dunque vittima inconsapevole di uno scontro tra spionaggi stranieri, non di un tiranno nostro amico. Questa versione piace perché rende meno ingombrante la figura del ricercatore. I suoi propalatori contano sulle reticenze dell’università inglese, restia a consegnare alla Procura di Roma la lista degli interlocutori egiziani di Regeni (e con ragione, essendo la Procura tenuta a girare quell’elenco ai magistrati di al- Sisi, sulla base dell’impegno alla collaborazione reciproca). Se nel frattempo la stampa estera dovesse confermare che il vertice della dittatura diede il suo placet a ll ’ assassinio si griderà alla macchinazione petrolifera ordita da rivali dell’Eni, al “singolare tempismo” col quale viene diffusa la notizia, insomma si ripeterà la nenia intonata da quotidiani come il Sole 24 Ore e il Foglio dopo le rivelazioni del New York Times. La regola è: quando ti indicano la luna, discuti del dito.
Beninteso, vivono in Egitto 6 mila italiani, ci sono i giacimenti dell’Eni e in questo momento il Cairo gioca partite in- ternazionali che ci riguardano, innanzitutto in Libia. Dunque nessuno potrà sdegnarsi se in privato l’ambasciatore Cantini si mostrerà amichevole con il capo dei torturatori, al-Sisi. Ma in pubblico eviti di farci vergognare emulando nelle smancerie i socialisti francesi e adesso i conservatori britannici, la cui Realpolitik in Egitto non conosce pudori. Tanto più perché al-Sisi non è eterno. Tra 9 mesi scade il suo mandato presidenziale e la Costituzione impedisce che sia prolungato. Ovviamente la Costituzione può essere modificata, obiettivo al quale il dittatore e i deputati di sua fiducia stanno giù lavorando. Ma il Parlamento è diviso, e così le gerarchie militari che di fatto hanno scelto i parlamentari; di conseguenza le probabilità che il feldmaresciallo sia rimpiazzato da un suo avversario, un generale magari disponibile ad avviare una qualche transizione, ancorché basse non sono minime. Qualora al-Sisi cadesse, la figura lumi- nosa di Giulio Regeni – l’italiano morto come tanti oppositori del regime, musulmani o copti, islamisti o laici – diventerebbe un asset per dimostrare agli egiziani che l’Italia non è il Paese di Pulcinella, quello che proclamava e proclama al-Sisi ‘grande leader’, quello che finge di ignorare una verità evidente a chiunque voglia vederla: Giulio Regeni è stato inghiottito dal sistema sul quale è fondato il regime egiziano, il Terrore. Se poi al-Sisi trascinasse nel baratro la propria cordata (essenzialmente i capi dei diversi servizi segreti egiziani) potremmo conoscere la verità tecnica sull’assassinio del ricercatore: chi abbia materialmente ucciso, chi abbia ordinato. Ammesso che l’Italia abbia davvero intenzione di sapere proprio tutto. In fondo è verosimile che il necessario placet per sopprimere un prigioniero torturato e a quel punto scomodo sia arrivato proprio perché i generali avevano motivi per credere che la reazione del governo Renzi, l’ossequioso amico di al-Sisi, nei fatti sarebbe stata flebile.
Al-Sisi non è eterno: se cadesse, l’Italia – anche grazie al caso di Giulio – potrebbe dimostrare che non è il Paese di Pulcinella