“BIG” PAVAROTTI ESAGERAVA, MA FU IL MIGLIORE
Quando debuttò, Luciano Pavarotti aveva una voce fresca, squillante, un timbro bello e dolce. A ciò aggiungeva una straordinaria chiarezza di dizione, che fino all’ultimo non ha abbandonata. Ma possedeva una musicalità grossolanamente istintiva, a stento di carattere melodico. Afferrava una melodia per sommi capi: quanto a intervalli; gliene sfuggiva il profilo ritmico – pur se questo fosse legato alla parola –; se gli aveste domandato l’armonia sottostante a tale melodia vi avrebbe guardato come se aveste parlato cinese. E questa melodia non sapeva leggerla; c’era bisogno di qualcuno che con santa pazienza, nota dopo nota, ossia tasto dopo tasto del pianoforte, gliela mettesse in bocca facendogliela memorizzare. Quando diventò un divo di successo questi difetti non fecero che aggravarsi, per l’arroganza, l’egolatria, diciamo pure la superfetazione dell’io sopravvenute. Onde sostenere che anche nei momenti migliori fosse uno dei più grandi cantanti era, ed è, frutto d’ignoranza o servilismo. I grandi tenori erano vocalisti squisiti quanto e più di lui, ma provvisti di cultura e musicalità: Carlo Bergonzi, il miglior tenore verdiano del dopoguerra, Mario Del Monaco, Nicolai Gedda, scomparso quest ’ anno nel silenzio italiano, Francisco Araiza; e persino Placido Domingo, che va valutato alla stregua di ciò che di grande e bello ha fatto e non nel triste tramonto attuale, ove tenta di travestirsi da baritono.
E tuttavia nella parte iniziale della carriera Pavarotti ha lasciato meravigliose testimonianze d’arte. Perché è passato ancora per le mani di direttori d’orchestra pieni d’autorità e dottrina. O che avesse l’umiltà di farsi da loro guidare, o che li temesse. Quando a dominarlo erano Antonino Votto e Oliviero De Fabritiis camminava, come si dice a Napoli, su di un filo di seta. Basta ascoltare la Lucia dell’Arena di Verona o il Mefistofele del 1982, l’ultima incisione del grande Oliviero, che la diresse già mortalmente malato. Un altro genio della bacchetta, Giuseppe Patanè, lo guidò sovente, ma l’egolatria di Pavarotti lo portò a volersi emancipare dal sommo “Pippo”, ch’era di una generazione successiva ai due or nominati. Poi non ebbe che servi proni a compiacerlo in tutto, colla massima umiliazione del testo musicale; e a tal riguardo tenne comportamenti ignobili. Per il Don Carlo passò nelle mani d’un altro grande direttore, Riccardo Muti, che gli lasciò fare tutto quel che voleva.
Ebbe un declino fatto di ruoli inadatti alla sua voce e malamente appresi; e divenne un grottesco mascherone mass-mediale, nella vita privata grottesco ancor più. È una triste nemesi che a dieci anni dalla scomparsa queste cose siano sostenute da molti, se non da tutti: quando l’averle dette lui vivo, e appena scomparso, mi rese una sorta di nemico dell’uman genere. A tali palinodie assisto con distacco. Ma proprio per questo sono costretto a considerazioni amare. Oggi i tenori di gran voga, e locupletatissimi, sono ignoranti come lui: ma non hanno nemmeno la voce, non dico la “sua” voce. Quando vedo un tenorino che in tempi migliori non sarebbe stato nemmeno un comprimario di terz’ordine conteso da Muti, Chailly, Pappano: e solo il primo dei tre conosce le materie della composizione musicale: penso che in costoro l’odio reciproco venga superato dalla compiacenza verso il tenorino; e questa compiacenza nel secondo e nel terzo si spiega coll’impreparazione, nel primo con più inquietanti considerazioni. E gli fanno fare, come ad altri tenorini, e Radames, e Otello, e Tristano e Siegfried… e le canzoni napoletane, immortalate da Caruso e Schipa … Allora meglio Pavarotti, per rottame che fosse….
A 10 ANNI DALLA MORTE Sostenere che fosse uno dei più grandi era, ed è, frutto d’ignoranza o servilismo Ma i tenori di oggi non hanno neanche la sua voce