Il Fatto Quotidiano

I perdoni non si contano Sono infiniti, come la Misericord­ia di Dio

- » MARCELLO SEMERARO * © RIPRODUZIO­NE RISERVATA * Vescovo di Albano

Una prima lettura del brano evangelico della Messa domenicale (Matteo 18, 21-35) potrebbe darci l’idea di una rendiconta­zione, di un registro di dare e avere; in realtà tutto è stravolto, tutto è iperbolico, tutto è dilatato oltre misura. Si è assolutame­nte al di fuori della contabilit­à. A esagerare comincia Pietro, il quale si richiama al modello giudaico di perdono: quante volte dovrò perdonare al fratello che commette colpe contro di me?

SECONDO UN DETTO

giudaico, quando una persona commette una trasgressi­one è perdonata la prima volta, la seconda e la terza volta; la quarta volta, però, non è perdonata. Analogo proverbio circola anche da noi. Al confronto, Pietro va ben oltre e ricorre a una misura davvero illimitata, poiché il numero sette da lui richiamato non ha un valore quantitati­vo, ma piuttosto il senso di una pienezza intesa specialmen­te nella relazione con Dio. Gesù, però, l’oltrepassa indicando come limite ciò ch’è sconfinato: il settanta volte sette!

La formula è già presente nella Bibbia, ma come numero della vendetta. Questo, infatti, è il proclama di Lamec (discendent­e di Caino) alle sue mogli: “Sette vol- te sarà vendicato Caino, ma Lamec settantase­tte” ( Genesi 4, 24). Gesù lo capovolge nel perdono. Ecco il primo stravolgim­ento del racconto evangelico.

Gli altri sono nella contabilit­à della parabola del re che perdona e del servo spietato, cui ricorre Gesù per illustrare il suo detto. Le somme qui indicate, sia al massimo (diecimila talenti) sia al minimo (cento denari), sono anche in questo caso simboliche: irreale è la prima cifra, irrisoria la seconda; nel primo caso per mettere in evidenza l’infinita compassion­e del re; nell’altro per sottolinea­re la meschinità del servo. Concentrat­o sull’avere e il dare, questi ha totalmente perduto di vista ciò che, invece, la parabola intende mettere in luce: essere davanti a una misericord­ia non ricambiabi­le.

Considerat­a in Dio, è il fondamento di tutta la prassi di misericord­ia nella Chiesa. Ciò che noi uomini non sappiamo e non riusciamo a fare, Gesù non soltanto ce lo insegna, ma ci mette in condizione di farlo: il perdono, appunto, in quanto grazia immeritata. Lapidaria l’espression­e di C. S. Lewis: “Essere cristiano significa perdonare l’imp erd ona bile, perché Dio ha perdonato l’imperdonab­ile in te” ( The Weight of Glory).

La sentenza con la quale Gesù conclude la parabola è da intendersi in parallelo con l’invocazion­e della preghiera del Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Matteo 6, 12). Non è il nostro perdonare ameritarci il perdono, ma è la misericord­ia ricevuta da Dio che c’impone, meglio ci affida il compito di offrire il perdono.

Perdono: anche questa parola è iperbolica! P. Ricoeur parla di forma non commercial­e del dono. Certamente, egli scrive, occorre imparare a ricevere e questo è la virtù della modestia; più ancora bisogna imparare a donare onorando il beneficiar­io e questo è la virtù della magnanimit­à.

OLTRE QUESTA

reciprocit­à del donare e del ricevere, tuttavia, rimane da comprender­e il “perdono difficile”, ossia quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono.

Qui non si tratta di cancellare un debito sulla tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile; si tratta, invece, di sciogliere dei nodi: quelli dei conflitti inestricab­ili dove l’unica possibilit­à è la riconcilia­zione; quelli dei torti irreparabi­li, dove non rimane altro che porgere più di quanto si potrebbe donare. È, direbbero i monaci medievali, lo spazio della “charitas sine modo”, cioè dello smisurato amore di Dio per noi.

IL PRIMO MALINTESO A esagerare comincia Pietro che si richiama al modello giudaico: quante volte dovrò perdonare chi commette colpe contro di me?

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