Visco, il dilemma di una scelta senza democrazia
Francamente non pare decisivo per le sorti del declino italiano se Ignazio Visco avrà o no un nuovo mandato da governatore della Banca d’Italia. Ma è angosciante che se ne parli come della nomina in una municipalizzata. Nessuno ha il coraggio di formulare l’un ico giudizio che conta: Visco ha operato bene nei suoi sei anni di mandato? Confermarlo porterebbe al Paese più vantaggi o svantaggi? Niente, solo il solito pro e contro da stadio – con battute, insinuazioni e tante veline – accompagna il solito oscuro rito da Prima Repubblica. L’interessato dirama oscuri vade retro brandendo il crocifisso a cui fu inchiodato nel 1979 il suo predecessore Paolo Baffi, seguendo lo sconsiderato suggerimento di qualche guru della comunicazione. Magari lo stesso che gli ha dato la geniale idea di parlare come Chance il giardiniere, ed esclusivamente ex cathedra, e di non rispondere mai alle domande di un giornalista, salvo andare a tubare in prime time da Fabio Fazio, l’unica “sede opportuna”.
La sproporzione è comica. Baffi fu aggredito dalla Procura di Roma su mandato politico del presidente del Consiglio Giulio Andreotti quando la vigilanza bancaria aveva nel mirino Michele Sindona. I carabinieri entrarono a Palazzo Koch per arrestare il vicedirettore generale Mario Sarcinelli. Quattro mesi dopo il liquidatore delle banche di Sindona Giorgio Ambrosoli fu ucciso a pistolettate da un sicario all’uopo incaricato dal banchiere siciliano. Quella fu una tragedia. Adesso ci tocca la farsa. Visco è avversato da Matteo Renzi che però non ha mai detto perché, limitandosi a manifestare generica antipatia con le solite battute, e non delle più riuscite. Il tiratore scelto schierato da Renzi nella commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche è Matteo Orfini, la cui mira abbiamo avuto modo di apprezzare quando per abbattere l’altro Ignazio (il sindaco di Roma Marino) ha fatto secco il povero Roberto Giachetti. L’alternativa a Visco sponsorizzata dallo statista di Rignano si chiama Marco Fortis, azzoppato da un handicap imbarazzante: prima di valutare se sia all’altezza, tutti si chiedono se la sua candidatura non sia uno scherzo.
A DIFFERENZA DI BAFFI, Visco lascia dietro di sé una scia di cadaveri bancari in un sistema iper regolato e iper vigilato. Ha delle responsabilità o, al contrario, il merito di aver con probità e perizia limitato i danni di uno tsunami inarrestabile? Nessuno fiata. Sottotraccia circola solo un dilemma: esporlo alla corrida parlamentare insieme a Quirinale e Palazzo Chigi, che se ne farebbero garanti confermandolo, oppure disinnescare la commissione d’inchiesta sfilandole il nemico numero uno? Mai una parola sul merito. Peccato. Quando Mario Draghi fu designato alla presidenza della Bce, con sei mesi di anticipo e non la sera prima, dovette mettersi sulla graticola del Parlamento europeo, cavandosela egregiamente anche di fronte alle domande più screanzate. Si chiama democrazia. Quando Barack Obama scelse Janet Yellen come governatore della Fed - la Banca centrale americana che governa il dollaro, un po’più importante e delicata, almeno stando a Wikipedia, della Banca d’Italia – spiegò pubblicamente le ragioni della scelta e, a conclusione di una procedura di tre mesi, chiese rispettosamente al Senato il decisivo voto favorevole. Yellen passò con 56 voti su 100 senatori, senza televoto e senza interpellare il web. Si chiama democrazia.
Ormai rassegnati a essere trattati come sudditi, ci accontenteremmo di poco. Se la scelta del governatore avesse la stessa trasparenza del voto del Conclave per Jorge Mario Bergoglio, per l’Italia sarebbe un piccolo grande passo verso la civiltà.
Twitter@giorgiomeletti