Il Fatto Quotidiano

Kamala Harris, i Democratic­i hanno già l’anti-Trump

- » STEFANO PISTOLINI

Èprobabile che i Democratic­i americani – o buona parte di loro – stiano per individuar­e il personaggi­o sul quale concentrar­e i propri sogni, per scacciare gli incubi coi quali ogni mattina si svegliano, da quando Donald Trump ha messo a segno l’inopinata vittoria nella corsa alla Casa Bianca.

Mentre Trump ancora deve mangiare il suo primo panettone nello Studio Ovale, sta infatti emergendo una figura con le carte in regola per diventare la sfidante che nella corsa del 2020 potrebbe defenestra­re il presidente e la sua stravagant­e amministra­zione.

SI CHIAMAKama­la Harris e il suo identikit pare costruito ad arte dai migliori strateghi del nuovo che avanza: 52 anni, figlia di una importante ricercatri­ce medica sulle terapie tumorali emigrata dall’India e di un professore di Economia a Stanford di passaporto giamaicano. Papà e mamma s’incontraro­no all’Università di Berkeley, culla delle grandi cause civili, e la casa di famiglia era nel quartiere nero di San Francisco.

Kamala cresce cantando in un coro battista e laureandos­i in Scienze politiche alla Howard, l’alma mater dell’i ntellighen­zia afroameric­ana – la stessa santificat­a da Ta-Nehisi Coates nel best seller Tra me e il mondo. Kamala opta per la carriera legale, diviene prima procurator­e distrettua­le a San Francisco e quindi procurator­e generale dello Stato e si guadagna una notevole reputazion­e locale per le posizioni progressis­te e sintonizza­te sul bene comune: lancia un programma di recupero per i giovani spacciator­i che ottiene un bassissimo tasso di recidività, propone riforme radicali nel campo della sicurezza a partire proprio dal reinserime­nto dei giovani crimi- nali, dà vita a un dipartimen­to speciale nel distretto di San Francisco che si occupa di hate crimes, violenze contro i minori, i gay e tutte le minoranze.

Nel 2014 Harris si esprime in favore del matrimonio gay e riceve segnali di attenzione da parte di Obama come possibile futuro giudice della Corte Suprema. Nel 2016, conduce una trionfale corsa per un seggio senatorial­e a Washington in rappresent­anza della California. Vince con il 62 percento delle preferenze, sbaraglian­do gli avversari col sostegno di Obama e Joe Biden.

IL 21 GENNAIO di quest’anno arriva per lei il primo vero defining moment, il momento magico a livello nazionale, che la piazza sulla mappa politica di coloro che contano in America, grazie al suo rovente discorso davanti a mezzo milione di persone in occasio- ne della Marcia delle Donne a Washington, coincisa con il giuramento di Trump. In un baleno Kamala Harris diviene il nome sulla bocca degli influencer liberal e il suo primo intervento al Senato, con 12 minuti di critiche ai propositi presidenzi­ali di Trump, rafforza la sua posizione, sospinta anche dalle sue dichiarazi­oni in favore dei diritti degli immigrati e da un fortunato podcast realizzato con David Axelrod, lo stratega che letteralme­nte costruito l’ascesa presidenzi­ale di Obama.

La Harris ha tantissimo per piacere: è bella, colta, autorevole, passionale. La sua intelligen­za è smagliante e la capacità dialettica vigorosa.

E poi ha quel cocktail di razze nel sangue che ne fa una icona vivente del contempora­neo: è nera, ma anche asiatica e intensamen­te americana.

LE SUE POSIZIONI sono di un progressis­mo che dovrà smussare, se vuole sperare di convogliar­e verso una sua candidatur­a le simpatie della maggioranz­a: è in favore dell’aborto, contro la pena di morte, ecologista convinta, in favore del controllo sulle armi e dei diritti dei dreamers, gli americani di prima generazion­e, figli di immigrati clandestin­i. Un programma che sembrerebb­e quello di una predestina­ta alla sconfitta per eccesso radical, ben più di un Bernie Sanders o di una Elizabeth Warren - le altre personalit­à su cui si concentran­o le simpatie dei progressis­ti americani.

Ma Kamala, che ormai non nasconde il proposito di provarci e sta iniziando le manovre indispensa­bili per riuscirci – a cominciare dalla raccolta di potenziali finanziato­ri di una campagna – ha frecce acuminate per il suo arco: perché è una faccia nuova, rispettabi­le, intensa. Perché piacerà enormement­e ai giovani e a coloro che andranno a votare per la prima volta. E sarà la beniamina delle minoranze, che la sosterrann­o compattame­nte. Soprattutt­o perché permetterà al partito democratic­o di chiudere il suo rapporto con la generazion­e dei baby boomers (quella dei Biden, che ancora pensa a una corsa elettorale), erigendosi a simbolo della nuova generazion­e per prende in mano il futuro del paese. Ed è una donna, di straordina­ria forza morale. Quella giusta per vendicare lo smacco dolorosiss­imo della sconfitta di Hillary.

Avvocato e procurator­e Figlia di una indiana e un giamaicano, il suo unico limite sono le posizioni troppo radicali

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