Le provocazioni di Gesù per superare la logica dei primi e degli ultimi
Un vangelo, quello oggi proclamato nella Messa domenicale, che “a prima vista offende, o sembra offendere, il nostro senso di giustizia, che Dio solo sa quanto è apprensivo e suscettibile. Come si può ricompensare egualmente un ineguale lavoro e assegnare la mercede medesima a chi lavora due ore e a chi ne lavora otto?”. Con tale domanda don Giuseppe De Luca, noto sacerdote e intellettuale romano morto nel 1962, iniziava un suo commento alla parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna (cf. Matteo 20, 1-16).
UDITO IL RACCONTO, per quanto alcuni commentatori si siano industriati a rendere meno incomprensibile il comportamento di questo “padrone”, il senso della stranezza effettivamente rimane. In ore differenti della giornata e quasi fino a sera egli torna a chiamare operai perché lavorino nella sua vigna. Coi primi pattuisce una somma (un denaro, ossia la cifra tipica per il lavoro d’un giorno), ai secondi promette una giusta paga, agli altri nient’altro che l’invito: andate a lavorare nella mia vigna! La mormorazione e la contestazione scoppiano quando al termine della giornata i primi s’accorgono che pure a tutti gli altri è stata data la loro stessa paga. Per comprendere il messaggio della parabola occorre sondare proprio nella sua eccentricità. Una buona indicazione giunge da alcune espressioni. Per esempio, la critica degli o- perai della prima ora i quali, confrontandosi con gli altri, dicono al padrone del campo: li hai trattati come noi. Il cuore della lamentela è qui: essere trattati alla stessa maniera quando, invece, è nell’ordine delle cose che ci siano primi e ultimi; alcuni cui si deve dare di più e altri cui, invece, di meno! Una società sen- za primi e ultimi non sarebbe nel disordine? Analogo il risentimento nel cuore del fratello maggiore dell’altra nota parabola riportata dal vangelo di san Luca (“io ti servo da tanti anni e ora che è tornato questo tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, hai ammazzato per lui il vitello grasso”: Luca 15, 29-30). La parola conclusiva di Gesù è una provocazione a superare la logica dei primi e degli ultimi e il sistema delle classifiche; ancora più a fondo, a passare oltre la logica dell’avere. Alla fin fine, gli operai coi quali era stato pattuito un denaro al giorno s’aspettavano che gli altri, avrebbero avuto di meno; oppure avranno supposto che a loro il padrone avrebbe dato di più. Il padrone della parabola, però, è uno che rispetta, sì, la giustizia (io non ti faccio torto – dice –; non hai forse concordato con me per un denaro?), ma è pure uno che va oltre, che ama il di più e non il di meno. Non è uno che toglie, ma piuttosto uno che dona. Per questo manifesta con semplicità, ma pure con un certo sconforto il suo stupore: sei, forse, invidioso perché io sono buono?
DA QUI CI ACCORGIAMOche sotto il volto del padrone della vigna si cela quello di Dio. Dice: io sono buono! Nella logica del vangelo di Matteo, Dio è il buono per antonomasia: egli solo è buono (cf. 19, 17). A ben vedere, è sempre il volto buono di Dio a fare… a farci problema; è l’agire buono di Dio che rende perfino invidiosi. Nel nostro caso, essere invidioso vuol dire avere l’occhio cattivo che non riesce, non sa vedere il bene; anzi, quando lo vede lo stravolge in male. L’occhio di Dio, invece, è buono. Senza il soccorso di chi, avendoli veduti senza lavoro, li ha mandati a lavorare nella sua vigna, quegli operai sarebbero rientrati a casa senza nulla per dar da mangiare alla propria famiglia. Ma è scritto: “ecco, l’occhio del Signore sui suoi fedeli, su quanti sperano nella sua misericordia, per liberare la loro vita dalla morte e farli vivere in tempo di fame” (Salmo 33, 18-19).