QUELLA MAFIA ACCADEMICA CHE BATTE OGNI RIFORMA
Uno dei maggiori latinisti italiani del XX secolo teorizzò che il vero professore si vedeva dalla capacità di piazzare non già l’allievo bravo, bensì quello scarso. Un suo più recente collega ha ribadito che “nessuno deve presentarsi a un concorso che non sia per lui”. Questi brandelli di conversazioni rappresentano il basso continuo dell’e thos accademico italiano, che le riforme non hanno intaccato.
DA QUANDOÈ tornata l’abilitazione scientifica – un concorso nazionale per acquisire l’idoneità di professore di I o di II fascia, requisito preliminare per poi partecipare ai concorsi locali banditi dai singoli atenei – si è dovuto ricorrere a reti di protezione più vaste per evitare che ottenessero la qualifica alcuni potenziali “disturbatori” dell’ordine baronale. Ma l’aver limitato la presenza nelle commissioni ai soli ordinari (decimati dai pensionamenti e dunque, per ogni settore, spesso anziani e poco numerosi: il cartello è quasi inevitabile) ha reso le consultazioni agevoli e ha accresciuto il potere delle Consulte, o Società disciplinari, le quali spesso affiancano alla promozione della scienza la “supervisione” dei concorsi. Si è realizzato, come ha scritto Figà Talamanca, il sogno degli ordinari di avere un controllo integrale sulle vite e le carriere dei più giovani. E i goffi tenta- tivi di limitare la discrezionalità delle commissioni tramite indicatori numerici o bibliometrici, demandati all’agenzia governativa Anvur, hanno ingenerato una quantità di distorsioni, reclami, ricorsi, non di rado fondati sull’assurdità di criteri quantitativi usati senza l’adeguata ponderazione per le singole aree.
Se, come accade di norma, in un dato settore scientifico vi sono 50 abilitati e ai concorsi banditi da ogni singola sede si presenta un solo candidato (o due, o tre), delle due l’una: o tutti gli altri riconoscono l’assoluta eccellenza del futuro vincitore (cosa che capita, temo, un po’ di rado) o tutti sanno che quel posto è già assegnato, e dunque è inutile (anzi, dannoso) presentarsi. Molte volte non serve nemmeno la dissuasione, perché chi vuole entrare in accademia, anche se ha un curriculum di tutto rispetto, sa preventivamente che certi “sgarbi” non vanno fatti; se poi c’è qualcuno di cui si sospetta che possa dar fastidio, cioè presentarsi a concorsi cui non deve, è meglio evitare di abilitarlo a monte (il caso, pare, del dott. Laroma Jezzi). Il sistema non differisce da quello mafioso in alcuni tratti salienti: verticismo, vasta connivenza, criterio di fedeltà, divisione in famiglie, intimidazioni, omertà. Poi ci sono variabili ad hoc: questioni di politica o di letto per gli umanisti, condivisione di studi professionali per giuristi e medici, prestazione d’opera di laboratorio per fisici e chimici; per non parlare dell’influsso di lobby massoniche e clericali.
Le leggi – nella fattispecie la riforma Gelmini del 2010 – hanno in parte peggiorato le cose: assumere tramite un regolare concorso un docente “da fuori” (cioè un valido abilitato che non insegni già nell’ateneo) costa una cifra che ben pochi Dipartimenti – nelle condizioni attuali del finanziamento universitario – possono permettersi: le promozioni interne, invece, sono de facto le uniche abbordabili, e fanno contenti colleghi e rettori. Inoltre, le commissioni dei concorsi locali sono stabilite da ogni Dipartimento con criteri di sua scelta, risultando pertanto soggette a un controllo pre- ventivo; e i profili dei concorsi – che pure non dovrebbero entrare tra i criteri di valutazione – sono non di rado così stringenti da prefigurare un vincitore.
IN RISPOSTA allo scandalo, la ministra Fedeli si è richiamata al recentissimo intervento dell’Anac nel Piano Nazionale Anticorruzione (una dettagliata analisi è disponibile sul sito roars.it ): in esso si raccomanda una limitazione della discrezionalità degli atenei nell’uso dei concorsi riservati ai soli interni (“ex art. 24”), nella nomina delle commissioni (esclusione dei parenti e di chi ha avuto collaborazioni strette con i candidati; non più di un concorso annuale per docente ecc.), e financo nella stessa programmazione del personale dei Dipartimenti (un punto in potenziale contrasto col principio dell’autonomia delle singole sedi); si auspicano inoltre una migliore definizione preventiva dei criteri di valutazione, l’introduzione di prove scritte, e consimili palliativi. Tutte cose più o meno condivisibili, in parte già attuate e in parte inutili se non si “chiude” l’abilitazione a una percentuale di vincitori fissa e uguale per tutti i settori, e se non si risolve la questione delle risorse che impediscono un libero reclutamento degli esterni. Ma ogni sistema è destinato a non funzionare in quello che Capano e Tognon definivano in un saggio del 2016 “un non luogo di scorribande di un potere sfuggito a ogni esercizio ordinato di programmazione ”, e che un collega implicato nell’indagine fiorentina chiamava, forse più icasticamente, un “mondo di merda”.