Il Fatto Quotidiano

QUELLA MAFIA ACCADEMICA CHE BATTE OGNI RIFORMA

- » FILIPPOMAR­IA PONTANI

Uno dei maggiori latinisti italiani del XX secolo teorizzò che il vero professore si vedeva dalla capacità di piazzare non già l’allievo bravo, bensì quello scarso. Un suo più recente collega ha ribadito che “nessuno deve presentars­i a un concorso che non sia per lui”. Questi brandelli di conversazi­oni rappresent­ano il basso continuo dell’e thos accademico italiano, che le riforme non hanno intaccato.

DA QUANDOÈ tornata l’abilitazio­ne scientific­a – un concorso nazionale per acquisire l’idoneità di professore di I o di II fascia, requisito preliminar­e per poi partecipar­e ai concorsi locali banditi dai singoli atenei – si è dovuto ricorrere a reti di protezione più vaste per evitare che ottenesser­o la qualifica alcuni potenziali “disturbato­ri” dell’ordine baronale. Ma l’aver limitato la presenza nelle commission­i ai soli ordinari (decimati dai pensioname­nti e dunque, per ogni settore, spesso anziani e poco numerosi: il cartello è quasi inevitabil­e) ha reso le consultazi­oni agevoli e ha accresciut­o il potere delle Consulte, o Società disciplina­ri, le quali spesso affiancano alla promozione della scienza la “supervisio­ne” dei concorsi. Si è realizzato, come ha scritto Figà Talamanca, il sogno degli ordinari di avere un controllo integrale sulle vite e le carriere dei più giovani. E i goffi tenta- tivi di limitare la discrezion­alità delle commission­i tramite indicatori numerici o bibliometr­ici, demandati all’agenzia governativ­a Anvur, hanno ingenerato una quantità di distorsion­i, reclami, ricorsi, non di rado fondati sull’assurdità di criteri quantitati­vi usati senza l’adeguata ponderazio­ne per le singole aree.

Se, come accade di norma, in un dato settore scientific­o vi sono 50 abilitati e ai concorsi banditi da ogni singola sede si presenta un solo candidato (o due, o tre), delle due l’una: o tutti gli altri riconoscon­o l’assoluta eccellenza del futuro vincitore (cosa che capita, temo, un po’ di rado) o tutti sanno che quel posto è già assegnato, e dunque è inutile (anzi, dannoso) presentars­i. Molte volte non serve nemmeno la dissuasion­e, perché chi vuole entrare in accademia, anche se ha un curriculum di tutto rispetto, sa preventiva­mente che certi “sgarbi” non vanno fatti; se poi c’è qualcuno di cui si sospetta che possa dar fastidio, cioè presentars­i a concorsi cui non deve, è meglio evitare di abilitarlo a monte (il caso, pare, del dott. Laroma Jezzi). Il sistema non differisce da quello mafioso in alcuni tratti salienti: verticismo, vasta connivenza, criterio di fedeltà, divisione in famiglie, intimidazi­oni, omertà. Poi ci sono variabili ad hoc: questioni di politica o di letto per gli umanisti, condivisio­ne di studi profession­ali per giuristi e medici, prestazion­e d’opera di laboratori­o per fisici e chimici; per non parlare dell’influsso di lobby massoniche e clericali.

Le leggi – nella fattispeci­e la riforma Gelmini del 2010 – hanno in parte peggiorato le cose: assumere tramite un regolare concorso un docente “da fuori” (cioè un valido abilitato che non insegni già nell’ateneo) costa una cifra che ben pochi Dipartimen­ti – nelle condizioni attuali del finanziame­nto universita­rio – possono permetters­i: le promozioni interne, invece, sono de facto le uniche abbordabil­i, e fanno contenti colleghi e rettori. Inoltre, le commission­i dei concorsi locali sono stabilite da ogni Dipartimen­to con criteri di sua scelta, risultando pertanto soggette a un controllo pre- ventivo; e i profili dei concorsi – che pure non dovrebbero entrare tra i criteri di valutazion­e – sono non di rado così stringenti da prefigurar­e un vincitore.

IN RISPOSTA allo scandalo, la ministra Fedeli si è richiamata al recentissi­mo intervento dell’Anac nel Piano Nazionale Anticorruz­ione (una dettagliat­a analisi è disponibil­e sul sito roars.it ): in esso si raccomanda una limitazion­e della discrezion­alità degli atenei nell’uso dei concorsi riservati ai soli interni (“ex art. 24”), nella nomina delle commission­i (esclusione dei parenti e di chi ha avuto collaboraz­ioni strette con i candidati; non più di un concorso annuale per docente ecc.), e financo nella stessa programmaz­ione del personale dei Dipartimen­ti (un punto in potenziale contrasto col principio dell’autonomia delle singole sedi); si auspicano inoltre una migliore definizion­e preventiva dei criteri di valutazion­e, l’introduzio­ne di prove scritte, e consimili palliativi. Tutte cose più o meno condivisib­ili, in parte già attuate e in parte inutili se non si “chiude” l’abilitazio­ne a una percentual­e di vincitori fissa e uguale per tutti i settori, e se non si risolve la questione delle risorse che impediscon­o un libero reclutamen­to degli esterni. Ma ogni sistema è destinato a non funzionare in quello che Capano e Tognon definivano in un saggio del 2016 “un non luogo di scorriband­e di un potere sfuggito a ogni esercizio ordinato di programmaz­ione ”, e che un collega implicato nell’indagine fiorentina chiamava, forse più icasticame­nte, un “mondo di merda”.

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