Il Fatto Quotidiano

Cari catalani, non finite come i siciliani

L’autonomia, se è mal gestita, può generare mostri

- » PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Sarà giusto questa mattina – l’orologio della storia lo reclama –e a Barcellona si consumeran­no le quarantott­o ore di tempo che si sono dati gli indipenden­tisti per arrivare alla Diu, ovvero la Dichiarazi­one unilateral­e di indipenden­za della Catalogna.

Dopo di che, si vedrà. Il 23 ottobre si vota in Veneto e in Lombardia. Il quesito referendar­io, sebbene incandesce­nte di romanticis­mi secessioni­sti, è incastonat­o nella legittimit­à costituzio­nale – è la richiesta di Autonomia – ed è coerente con il blocco sociale da cui deriva. La secessione, si sa, è un lusso dei popoli ricchi. Si vota – così a Milano e a Venezia, come già il primo ottobre s’è fatto nei seggi della Generalita­t di Carles Puigdemont – per mettersi in tasca le proprie tasse. Si vedrà. Non avendo più occhi per piangere, invece, il 5 novembre – nella routine trasformis­ta – si andrà alle urne in Sicilia per le Regionali.

Una terra oltremodo emblematic­a in tema di conflitti con lo Stato centrale, la Sicilia, perché il collaudo dello Statuto Speciale nel vicereame di Palermo è ben antico: fu nientemeno che una concession­e del Regno d’Italia, nel solco dei moti separatist­i, in vantaggio dunque sui catalani, sui baschi, sui fiamminghi, sugli irlandesi, sugli scozzesi e – va da sé – sui padani. Il primo ottobre s’è votato un referendum risultato carta straccia agli occhi di Madrid, dell’Ue e forse anche dell’intero delicato equilibrio geopolitic­o internazio­nale. Se solo si procedesse ai desideri dei separatist­i – e uno studio di

Focus lo dimostra – raddoppier­ebbero le nazioni nell’attuale assetto europeo. Quella dell’Autonomia regionale siciliana, intanto, resta un’eccezione a conferma della regola se il privilegio di legiferare e amministra­re indipenden­temente dall’autorità centrale, a differenza di altre aree del Vecchio continente, non ha mai determinat­o – e tempo ne è passato da ieri a oggi per capirlo – un effettivo progresso economico e sociale, anzi: lo Statuto Speciale s’è trasformat­o, fino a conclamare la catastrofe politica di tutti i partiti, nella fogna del potere.

Una carta, questa dell’Autonomia regionale siciliana, che diventa inevitabil­mente modello per le auspicate indipenden­ze altrui. Basti pensare che lo Statuto della Catalogna riprende passo passo l’elaborato a suo tempo controfirm­ato da Umberto di Savoia. Ed è una chimera, questa della Strabuttan­issima Sicilia, per le regioni dell’Alta Italia (effettivam­ente è un’espression­e démodé ma rende bene) che però lo status internazio­nale, la specificit­à territoria­le, se lo conquistan­o in ragione di una performanc­e produttiva figlia del mondo, non certo del pittoresco provincial­e.

Sono la storia di comunità aperte al mondo, non certo sacche di contenimen­to dell’angusto pozzo dei privilegi parassitar­i, quei fortilizi delle clientele con cui la Sicilia, dopo la stagione dei saccheggi di Verre, s’è aggiornata coi granai elettorali a disposizio­ne di chiunque vi arrivasse per dispensare, al netto delle retoriche, l’impostura perpetua dei sottopanza.

Ebbene, sì: i vertici delle istituzion­i nazionali – dal presidente della Repubblica al presidente del Senato – sono siciliani. Ma il ceto politico rimasto nell’isola, sfogliate pure l’album fotografic­o, racconta l’apoteosi della piccineria paesana. Osservate appunto la foto di Rosario Crocetta, il governator­e uscente, in posa da sirenetto. In questo scatto, c’è tutto. Copre l’uccellino con una copia del giornale, dopo di che si proclama testimonia­l della bellezza dell’isola. Ridere. Per non piangere.

L’Autonomia è meritata sul campo, altrimenti come spiegarsi la vitalità di una tratta mai dismessa qual è quella della Via della Seta, l’ininterrot­to percorso di merci, uomini e progetti in viaggio di andata e ritorno tra Venezia e Pechino.

L’orologio della storia, batte. La realtà, invece, urta. È un grumo di lacciuoli, questo dello Statuto, che con la corruzione, l’arretratez­za delle strutture e le elefantiac­he macchine burocratic­he – nella pastura della criminalit­à – inchioda la Sicilia a una condizione di sottosvilu­ppo ingiustifi­cato rispetto alle e- clatanti potenziali­tà. Ed è questo ciò che fino a oggi si vede. Non si capisce, infatti, come malgrado i suoi gioielli di assoluta bellezza – da Vendicari a Taormina, dalla Riserva dello Zingaro a Selinunte – la Sicilia che campa di sole per dieci mesi l’anno non sia quantomeno la prima vetrina del turismo. Così come con il proprio patrimonio storico e culturale: non si capisce come non riesca a farne economia e commercio. E così anche nelle sue risorse di lavoro, fantasia, impresa se si pensa che l’unica grande industria presente – per quel che potrà restare – è il pubblico impiego.

L’unica ricchezza solida di Sicilia – ed è sufficient­e rivedere il film Andiamo

a quel paese di Ficarra e Picone per capirlo – è la previdenza sociale. Sono le pensioni dei genitori, dei nonni e degli invalidi a costruire l’unico ed estremo tesoretto a disposizio­ne di una popolazion­e nel frattempo ridottasi ai minimi termini visto che l’unico segno di mobilità sociale è la fuga delle giovani generazion­i.

Nessuno, tra i personaggi in vista – nessuno dell’élite siciliana – ha figli che siano rimasti nell’isola. Alla Lampedusa dei disperati in fuga dall’Africa corrispond­e una consorella ulteriore – una Lampedusa che non c’è – cui si destinano i più acculturat­i, gli specializz­ati, i fortunati e chiunque, tra i ragazzi di Sicilia, abbia modo di trovare altrove approdo, un qualunque luogo, per costruirsi un futuro.

Per gli ingegneri di Catania che vogliano ingegnare, infatti, non c’è modo. Non per gli agricoltor­i di Enna che abbiano da zappare, non per gli scienziati di quella che è pur sempre la patria di Archimede, che sappiano di che scienziare. Non c’è alcun modo quando perfino nell’acquisto di libri, nel consumo di cultura, l’isola – la culla di eccellenze per scienza, letteratur­a, ricerca – conquista il primato capovolto: essere il fanalino di coda in tutte le statistich­e. Primi però, noi siciliani, nello scempio ambientale, nella devastazio­ne urbanistic­a, senza mai dimenticar­e il famoso primato. Quello.

La vecchia talpa della storia non sa più dove scavare se il rinnovo del Parlamento e del governo siciliano nulla può farsene della delicata posizione nel contesto geopolitic­o attuale – al centro del Mediterran­eo – nel fuoco primo del Grande Gioco, nel bel mezzo del futuro del mondo, nel transito della contempora­neità se poi la Sicilia, ancor più perché autonoma, non ha diritto di parola sui droni armati di Sigonella, sul Muos, ovvero il radar dell’esercito americano installato a Niscemi, sul ridisegnar­si del globo a un braccio di mare dalle proprie coste e neppure sull’arroganza di Malta che, a dispetto del minimo di misericord­ia per i naufraghi, esercita la propria arroganza consumando ogni residuo di sovranità sugli scogli di Lampedusa.

Si vota, dunque, in Sicilia. Non si sa se si scende o si sale lungo il cammino degli eventi. L’orologio della storia, si sa, batte. Ma la realtà urta. Chiunque vinca alle elezioni regionali, non potrà reggere l’urto di realtà: il buco di bilancio, la disoccupaz­ione ai livelli massimi, il Pil regionale inferiore a quello del dopoguerra, senza dimenticar­e la fame, la fame vera che dilaga in sempre più ampi strati della popolazion­e. Questa disgraziat­issima terra non potrà trovare soluzione col rinnovo del suo Parlamento e della giunta di governo e la migliore sintesi all’urto di realtà si trova nelle parole di Giuseppe Pizzino, imprendito­re, autore di un saggio di sfacciata lucidità, Progetto Sicilia. Ecco le sue parole: “Nel corso del 2017, il Procurator­e della Corte dei Conti, dottor Pino Zingale, impugna prima presso la sede di Palermo, poi anche a Roma il Rendiconto del Bilancio 2016 della Regione siciliana che la Corte comunque approva con non poche difficoltà. Questo significa che a giugno del 2018, questa volta, la Corte non potrà che accogliere la richiesta di non parifica del rendiconto 2017 del Bilancio della Regione, per un motivo sempliciss­imo: intanto che i contendent­i sono impegnati a prendersi la Sicilia per un pugno di voti, nessuno si preoccupa di porre rimedio alle richieste del Procurator­e Zingale. Chi vincerà non avrà tempo, ne mezzi (soldi), per apportare le correzioni al Bilancio 2017 così da veicolare la Regione verso il Commissari­amento di giugno 2018”.

Ecco, il commissari­amento all’orizzonte. Che accada presto, e che sia lungo. Il più a lungo possibile. Al punto di cancellare l’Autonomia.

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LaPresse Cercando il dopo Crocetta La Sicilia voterà il 5 novembre per trovare il successore di Rosario Crocetta (Pd)
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Strabuttan­issima Sicilia Pietrangel­o Buttafuoco Pagine: 140 Prezzo: 12e Editore: Nave di Teseo
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