Buratti ora è tornato: è sempre l’Alligatore ma morde di meno
Ben tornato, ben ritrovato. Per chi ama i noir, “l’Alligatore” è uno dei primi personaggi del nuovo corso letterario italiano, nato a metà degli anni Novanta dalla fantasia, lettura attenta della quotidianità, storia personale di Massimo Carlotto (tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta è protagonista di un noto caso giudiziario sul quale ha scritto il suo primo libro); così l’Alligatore è da tempo entrato nel Gotha dei personaggi classici, uno dei parametri sui quali basare il giudizio rispetto a molti dei suoi colleghi.
Anche questo decimo capitolo della saga ( Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane, Edizioni e/o) gioca sui suoi temi soliti, in perenne equilibrio tra struttura e sovrastruttura, detto e ipotizzato, lasciato intendere, attualità, retroscena, complotto e certezza (un breve passaggio del libro è dedicato alla trattativa tra Stato e mafia); in lotta tra verità apparente e sostanza, tra valori criminali e neo gruppi di malavitosi, con uno Stato colluso o incapace di immettere nella società i giusti diaframmi.
I SUOI PERSONAGGI sono in leggera evoluzione rispetto al passato: invecchiano, subiscono l’alcol, la solitudine, i dolori; sono sempre più disincantati dalla vita, ma denunciano un po’ di stanchezza nei loro ruoli, come se lo stesso Carlotto gli avesse chiesto uno sforzo oltre il credibile, come se Marco Buratti, l’investigatore detto l’Alligatore, fosse una sorta di Daniel Craig ancora spinto a interpretare 007 per mera questione economica.
Manca un po’ di sorpresa quindi, nonostante in questo capitolo ci sia l’ennesimo scontro con Giorgio Pellegrini, il loro vero antagonista, già protagonista di due bei libri di Carlotto extra-saga ( Arrivederci amore, ciao del 2001 e Alla fine di un giorno noioso del 2011), poi entrato nella vita dell’Alligatore da qualche “puntata”, una sorta di Immortale del male, in grado di sopravvivere a scontri a fuoco, bande, avversità, vendette, fughe, e pure alla furia vendicatrice di Beniamino Rossini (storico partner di Buratti).
Lui, Pellegrini, alla fine c’è e in parte giustifica l’esistenza dell’Alligatore e company, mantiene la tensione, tanto da entrare tra le pagine con una prima persona inedita: in alcuni capitoli è lui a raccontare, a ribaltare i piani, a passare da mera contrapposizione a protagonista della vicenda; è lui a dettare i tempi, a portare un’ottica alternativa e una nuova energia agli intrecci.
RESTA la sensazione, sempre per restare in ambito cinematografico, di un appuntamento oramai ineluttabile, come avviene con Woody Allen, non più ai li- velli degli anni Settanta, o dei successivi, ma sempre in grado di offrire un paio di battute (o più) a film in grado di far sorridere (non ridere) il fan; allo stesso modo non siamo più ai livelli dei primi noir dedicati all’Alligatore, capaci di squarciare un verosimile assolutamente inedito, ma comunque resta il piacevole richiamo nel ritrovare uno dei migliori personaggi nati, costruiti e raccontati negli ultimi v en t’anni di indagini ambientate nell’infinito sottobosco nostrano.
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STAVOLTA nell’ultimo Mordenti e la sua squadra devono rincorrere gli assassini di Fred Céline, poliziotto motociclista e compagno di Leila Santoni, una delle colonne di les italiens. Gli indizi latitano e la prima scena porta lontano da Parigi: a Royan, sulla costa atlantica. Leila sospetta una doppia vita sentimentale del povero Fred. Invece, lui era in contatto con una misteriosa donna vicina a un gruppo di studenti arabi. Insomma: siamo in estate, la festa nazionale del 14 luglio s’avvicina e si teme un devastante attentato. Pandiani però ci conduce nel lato oscuro del terrorismo islamico, dove complicità e convenienze spingono la destra estrema e fascista, ben oltre il borghese lepenismo di Marine, a favorire bombe e stragi innescate da fanatici del Corano. Un classico che in Italia abbiamo già visto alla fine degli anni sessanta, con la strategia della tensione per stabilizzare il potere dc contro l’avanzata comunista.