TORINO, “GNOMMERO” NON FA RIMA CON BUSINESS
Considerata in passato una città cartesiana, razionale, laica, civile, dove persino i santi erano sociali e il barocco meno baroccheggiante che altrove, ora Torino si scopre, come la Roma di Carlo Emilio Gadda, un luogo dello “gnommero”, o “nodo o groviglio”.
Le vicende tribolate del Salone del Libro, pressato da nemici esterni (la fiera libraria milanese) e interni (scontri tra potentati locali), lo dimostrano.
Si muovono nello “gnommero” il declassamento del valore del marchio di Librolandia e i conseguenti travagli finanziari della Fondazione per il Libro, l’uscita di scena dalla governance dei ministeri dei Beni Culturali e dell’Istruzione, la separazione fra struttura culturale e struttura commerciale. Fino al rientro in gioco di un ente come la Fondazione per la Cultura: sembrava che la giunta Appendino volesse affossarla, invece pare sia destinata a spartirsi con altre istituzioni il Salone del Lingotto.
Sullo sfondo si agita la solita Torino cultural-politica dei soliti noti, immutabile da anni, con il suo teatrino di amici & parenti, mariti & mogli, figli & nipoti. Soliti noti, soliti salotti, soliti sospetti, solite guerre per bande.
Quella Torino che, come ricordava Rolando Picchioni, già timoniere di lungo corso del Salone del Libro, “divora i suoi figli”.
Una Torino da “cupio dissolvi”, diceva, in cui “c’entra un po’ di provincialismo, un po’ di Strap ae se ”, e dove prevale “quella cultura che tende a far sì che qui debba esistere un solo giornale, un solo partito, una sola azienda, una sola squadra di calcio”.
Perché in virtù di quei soliti noti, legati a vario titolo tra loro, il pluralismo non può esistere e tutto si riduce a “gnommero”.
E alla fine tutti, culturalmente parlando, parlano la stessa lingua, affermano che uno chef, o cuoco, vale quanto un poeta; che la cultura è “evento” e che deve rendere, essere business. Anche se l’impressione, alla luce offuscata del Salone, è che non tutti quelli dello “gnom mero” sap piano farlo il business.