Willie Peyote non ha paura di dire come stanno le cose
Quarto lavoro, il migliore
ESERCIZIO: recensione senza rete di protezione, senza appigli che descrivano un disco in base al già noto, giocando per aggiunta, o per sottrazione. È vero, conWillie Peyote escludere i riferimenti significa un po’ vincere facile. Non perché non siano chiare certe sue ispirazioni (non si possono dire, per via dell’esercizio), ma perché non ce n’è bisogno. Non vale la pena sottrarre attenzione a “Sindrome di Tôret”, che esce oggi e si piazza in questa coda di 2017 prendendosi, di diritto, un posto d’onore. Guglielmo Bruno non è uno di primo pelo: è al quarto lavoro, il migliore. Le rime si appoggiano sulla musica (suonata, e bene) con una voce che non ha bisogno di forzare la metrica. Parla e canta, lui, con quel distacco di chi sa di avere un ottimo modo di esporre idee, trovassero anche il disaccordo di chi ascolta. Frega niente, a Willie, di essere scorretto, di dire che “vestirsi male e avere un pessimo rapporto con il c***o” “non c’entra niente con il femminismo”, di mischiare l’ansia quotidiana di tutti (“è pronto il referto degli esami ma non so se lo ritirerò”) ai massimi sistemi. Non ha paura di dire qualcosa di realmente politico, senza averne la presunzione, e poi perdersi nella borsa di una donna. È elegante, è torinese. Dovrebbe esserci la fila per featuring con lui. Degne di nota: “Porta Palazzo”, “Ottima scusa”.