Sicilia, il silenzio di chi non sente l’odore della mafia
C’è chi è stato condannato in primo grado per corruzione elettorale e chi è accusato in quattro diversi processi di ben 22 capi d’imputazione. Qualcuno conserva invece nell’album di famiglia fotografie scattate sottobraccio a boss che hanno fatto la storia di Cosa Nostra, oppure non esita a vantarsi, in pubblico e privato, della sua amicizia con figli di capimafia latitanti. Altri invece sono semplicemente parenti di. Cioè hanno genitori dichiarati definitivamente colpevoli, congiunti indagati o familiari mandati alla sbarra.
Non è un bello spettacolo quello offerto dai candidati di tante liste che in Sicilia appoggiano gli aspiranti presidenti del centrodestra e del centrosinistra. Sia Nello Musumeci che Fabrizio Micari hanno più volte ripetuto che le candidature sporche non le volevano. Il risultato però non è stato pari alle attese. Ma se non stupisce che nella irredimibile Sicilia la cosa venga dai più semplicemente considerata un accidente, come la grandine d’estate o il Capodanno che segue per forza al Natale, il discorso cambia se si guarda al resto dell’Italia. L’assenza pressoché totale di reazioni da parte di giornali, intellettuali, leader politici nazionali, ci consegna un Paese che pare tornato indietro di 30 anni. A un’epoca precedente rispetto alle stragi di mafia e all’inchiesta milanese di Mani Pulite.
ALLORA IL PROCURATORE Paolo Borsellino spiegava nei suoi incontri pubblici quali fossero a suo avviso i doveri di chi faceva politica. “C’è stata – diceva – una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [...]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! [...] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, beh ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!”. Parole chiare, utili per capire la differenza che corre tra il garantismo e l’indifferenza complice.
Nelle aule di tribunale il garantismo è un dovere. Un imputato deve essere condannato solo se considerato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Meglio infatti dieci colpevoli fuori che un innocente in prigione. In politica devono invece scattare principi di elementare prudenza. Visto che il rischio mafia (e corruzione) è in Italia alto e le conseguenze le pagano tutti i cittadini, dalle liste vanno esclusi coloro i quali hanno amicizie discutibili, tengono comportamenti non trasparenti o ammiccano ai clan. Pretendere però che i nostri partiti lo facciano da soli è velleitario, lo sappiamo. Per questo lascia oggi l’amaro in bocca il silenzio di chi nei media, in Parlamento e nelle più alte istituzioni repubblicane, potrebbe parlare. E invece tace o addirittura preferisce bacchettare e criticare chi osa proferir parola.