Il Fatto Quotidiano

Rohingya, nell’inferno di un popolo in fuga

Un esodo dalla Birmania

- » COSIMO CARIDI Cox’s Bazar (Bangladesh)

■Nel campo profughi di Balukhali oltre 100 mila persone vivono in condizioni disperate, tutti appartenen­ti alla minoranza musulmana perseguita­ta in Myanmar: “Operazioni che seguono i principi della pulizia etnica”, secondo l’Alto Commissari­o dei diritti umani delle Nazioni Unite

Piove a gocce grosse come biglie. In pochi minuti il sole si oscura e con la stessa velocità la strada si trasforma in una palude. Le capanne flettono sotto il peso dell’acqua, i viottoli che scendono per le collinette diventano ruscelli. Un mese fa questo era un bosco, oggi è il campo profughi di Balukhali, dove vivono oltre 100 mila rifugiati. Ma i numeri dell’esodo rohingya sono ancora più imponenti. Da fine agosto una violenta azione dell’esercito birmano ha messo in fuga verso il Bangladesh oltre mezzo milione di persone, tutte bloccate in una manciata di chilometri quadrati all’estremo sud del Paese. In un quarto d’ora torna il sole e illumina il fango lasciato dall’acquazzone. Il termometro schizza sopra i 35 gradi, che con l’umidità sembrano 45.

“SONO RIMASTO solo – Rohaman, sedici anni, non perde il sorriso nemmeno mentre racconta il massacro della sua famiglia – l’esercito è arrivato e ha iniziato a sparare, era notte. I miei genitori e mia sorella dormivano, sono bruciati con la casa”. Rohaman quella sera era da suo zio. Quando ha visto il fuoco è scappato nella foresta. “Mi sono nascosto lì per 12 giorni – continua il ragazzo – senza mangiare, senza dormire”. Ha altri otto fratelli, anche loro sono scappati: “Saranno in un altro campo o forse ancora in Myanmar”. Racconta che di Buthi Dung, il suo piccolo villaggio, non è rimasto più nulla: “Tutto è stato bruciato, le trecento persone che ci vivevano o sono fuggite o sono morte”.

La storia di Rohaman è piena di dettagli, di colpi di macete, di arti amputati, di stupri, ma soprattutt­o di paura. Tutto questo però non è verificabi­le. Il Myanmar non permette ai giornalist­i e agli osservator­i internazio­nali di visitare il Rakine, la regione interessat­a dagli scontri. Le immagini satellitar­i, analizzate da Human Right Watch, hanno registrato il rogo di oltre 65 villaggi nelle ultime sei settimane. Per chi scappa si tratta della mano incendiari­a dell’esercito birmano. Per i generali, invece, sono gli stessi rohingya a dar fuoco alle proprie case per poi fuggire in Bangladesh. Ma la versione della giunta militare, che guida il Myanmar da quasi 30 anni, non convince gli osservator­i internazio­nali: “Le operazioni della Birmania contro i rohingya, sembrano applicare i principi della pulizia etnica”, ha detto a metà settembre Zeid Ràad el Hussein, l’Alto Commissari­o dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.

Le accuse della comunità internazio­nale fanno ancora più rumore, perché offuscano l’aura di Aung San Suu Kyi, icona mondiale della nonviolenz­a. Nel 1990, poco dopo che la giunta militare s’impadronì del potere, Suu Kyi si presentò alle elezioni e le vinse. L’esercito la fece incarcerar­e. L’anno successivo la signora di Rangoon fu insignita del Nobel per la Pace. Da lì in poi, fino al 2010, visse agli arresti domiciliar­i. Oggi, dopo aver vinto le elezioni del 2015, sarebbe dovuta essere il primo ministro, ma i militari le hanno assegnato un ruolo creato ad hoc: consiglier­e di Stato. Per tre settimane dall’inizio della crisi, Suu Kyi ha mantenuto il silenzio sulle violenze perpetrate contro la minoranza rohingya. Il 18 settembre ha, finalmente, detto la sua: difendendo le forze di sicurezza che starebbero prendendo tutte le misure necessarie per non colpire i “civili innocenti” e per evitare “danni collateral­i”. Strano che dopo anni di arresti domiciliar­i l’eroina birmana si schieri con i suoi (ex) aguzzini.

ALL’INGRESSO del campo di Balukhali su un cartellone nero si legge “Basta omicidi. Aung San Suu Kyi riconsegna il Nobel”. Se violenze e ferite possono essere nascoste, bastano pochi passi tra i rohingya rifugiatis­i in Bangladesh per vedere i segni della malnutrizi­one. Da ogni tenda spuntano bambini nudi da braccia, gambe scheletric­he e con il ventre gonfio. In piedi davanti all’ingresso della capanna di bambù c’è una donna con un bimbo di poche settimane tra le braccia. “Siamo scappati quando lui aveva 20 giorni – spiega Nurtaz Bagan, 25anni e cinque figli – non avevo latte da dargli. Prima di arrivare qui non mangiavo da giorni”. L’esercito di Dhaka

registra tutti i rohingya che entrano nel Paese e li invia verso i campi profughi, a pochi chilometri dal confine. Non è il governo a prendersi cura di loro, ma le ong. Lunghe file dall’alba al tramonto segnano il ritmo dei pasti. Dei recinti di bambù racchiudon­o centinaia di bambini che aspettano nel fango. Chi di loro ha un piatto lo usa per ripararsi dal sole. Dai pentoloni escono mestolate di riso e salsa piccante. Non ce n’è per tutti. Si corre, si litiga, qualcuno scoppia a piangere, molti resteranno a digiuno anche oggi.

Un mormorio ritmico e ripetitivo arriva dalla cima di u- na collinetta. Uomini in galabeya bianca e barba lunga appoggiano la fronte a terra. La moschea è il luogo più pulito di tutto il campo. Il trentenne Ayoub Khan sorregge il padre anziano mentre si infila le ciabatte dopo aver terminato il rito della preghiera. “Non meritava di lasciare la sua casa prima di morire – dice mentre prende sottobracc­io il genitore e lo accompagna verso la tenda – ci danno la caccia perché siamo rohingya, perché siamo musulmani”. Ayoub divide la capanna con tutta la famiglia allargata, meno di 20 metri quadrati dove dormono e mangiano 13 persone. “Sono laureato, ma non mi hanno mai fatto lavorare. In Birmania noi rohingya non possiamo avere impieghi qualificat­i. Ci odiano e ci perseguita­no”.

IN MYANMAR la maggioranz­a della popolazion­e è buddista. I rohingya sono confinati nel nord del Paese, alla frontiera con il Bangladesh. Nei secoli quell’area passa di mano diverse volte. Si crea così una minoranza musulmana con lingua e cultura diversa dal resto dello Stato. Durante la Seconda guerra mondiale i britannici armano i rohingya, i giapponesi fanno lo stesso con i buddisti. I massacri si susseguono per anni. Non basta la fine del conflitto mondiale: le armi continuano ad arrivare dal Regno Unito, questa volta per fermare l’avanzata dell’Unione Sovietica. Nel 1948 la Birmania diventa indipenden­te. Subito la maggioranz­a burma e buddista inizia una discrimina­zione sistematic­a contro la minoranza musulmana. Media e società civile etichettan­o i rohingya come migranti illegali bangladesi. La repression­e genera una re- sistenza violenta che negli ultimi anni si riunisce nell’Arsa, un gruppo di matrice islamica che lotta per la liberazion­e dell’Arkan, antico regno dei rohingya. Per ogni attacco dell’Arsa l’esercito birmano colpisce i villaggi musulmani. I civili scappano. Il copione si ripete, fino a degenerare ad agosto nella più grande crisi umanitaria dei nostri giorni.

Nessuno è in grado di dare dati ufficiali né su quanti siano i rohingya entrati in Bangladesh né su quanti ce ne siano nei campi. Lungo le strade che attraversa­no gli insediamen­ti gli uomini camminano schiacciat­i dal peso dei lunghi bambù che trasportan­o. “Dieci pali lunghi quattro metri – dice un ragazzo con gli alberi in equilibrio sulla spalla – due teloni di plastica e qualche cordino. Basta questo per costruirmi casa”. Tra il fango e la pioggia i profughi stanno costruendo una città con canne di bambù. Le tagliano, legano e intreccian­o, trasforman­dole in tetti, muri e recinti. Tutto destinato a durare meno della stagione monsonica.

Non c’è un piano di sviluppo, non ci sono bagni né acqua corrente. Mancano le scuole e le strutture sanitarie, ma si contano già decine di moschee. Le fogne non sono altro che dei canali di scolo che scaricano in mezzo alle colline, proprio accanto ai primi em- brioni di negozi. L’odore acre di feci mischiate ad acqua lasciata al sole, è un campanello d’allarme importante. La organizzaz­ione mondiale della Salute ha già annunciato un piano di vaccinazio­ni obbligator­ie contro il colera.

I campi si snodano per una lingua d’asfalto lunga quasi dieci chilometri, alle due estremità i posti di controllo dell’esercito di Dhaka. I rohingya possono entrare, ma non uscire. Siamo nel distretto di Cox’s Bazar, la riviera romagnola del Bangladesh, 120 chilometri di spiaggia con sabbia bianca, la perla del turismo nazionale. Il mezzo milione di rifugiati ha visto quel mare solo una volta, quando lo ha attraversa­to scappando dalla Birmania.

Shamlapur è un villaggio di pescatori, il Myanmar dista meno di un’ora di navigazion­e. Sul bagnasciug­a sono adagiate diverse barche lunghe una decina di metri, hanno poppa e prua affusolate verso l’alto. “Ci sono stati molti naufragi – racconta Saad Bin Hossain, regista di Dhaka che sta documentan­do la fuga dei rohingya – lunedì scorso l’ultimo. Sono arrivati a riva 12 cadaveri, dieci erano bambini”. L’acqua è scura, carica della terra che i monsoni gettano in mare. “Si può attraversa­re il confine anche a piedi – continua Saad – ma è più pericoloso. Ho visto il corpo di un ragazzo imputridir­e nella

ha pestato una mina anti- uomo, con lo zoom della telecamera lo potevo vedere in faccia, i suoi resti sono ancora lì”.

Il premio Nobel San Suu Kyi sotto accusa: non ha ancora condannato la repression­e e ha compromess­o l’immagine di sé di paladina della rinascita democratic­a del Paese

 ?? C. Caridi ?? L’allarme Il campo profughi di Balukhali, dove vivono oltre 100mila rifugiati
C. Caridi L’allarme Il campo profughi di Balukhali, dove vivono oltre 100mila rifugiati
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Nel fango I campi di Balukhali
Nel fango I campi di Balukhali
 ?? C. Caridi ?? Nel fango I profughi vivono in un campo senza bagni, luce e acqua corrente
C. Caridi Nel fango I profughi vivono in un campo senza bagni, luce e acqua corrente
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy