Ecco il peggior ristorante della Capitale
na arrivato, prima ancora di provare il gusto della cucina romano- bengalese. È vero. Ma te la sei cercata ugualmente, perché non ti sei chiesto che ne può sapere uno che viene dal Bangladesh – se nessuno glielo insegna – di come si fa la parmigiana. Bisogna essere indulgenti e ingoiarsi quest ’ installazione diremmo “scomposta” – anche i cuochi improvvisati guardano Masterchef Bangladesh – da tre fette di melanzane tagliate a disco su cui sono atterrate languide delle gocce di pomodoro stile ketchup.
IL TUTTO sepolto da una colata di formaggio maleodorante (calmi, non è roquefort) spessa e impenetrabile, quasi quanto lo sguardo del figlio del proprietario che si aggira tra i tavoli cercando di vendere in tutte le lingue promesse di piatti che non arriveranno mai. Risultato: provate voi a violare quella calotta gialla. Come la bandiera della resa sta lì su appoggiato anche il basilico. Ultimo ingrediente italiano rimasto in tavola dopo l’an- negamento nel brodo di panna acida ( Cannavacciuolo non c’entra) dei porcini congelati, avvinghiati alle fettuccine nel piatto da mensa del commensale di fronte. Accanto a loro cercano di scaldarsi da soli con lo strofinio dei pelati, i ravioli ripieni di foglie. “Che foglie?” (cit. Corrado Guzzanti). Devono essere gli stessi che sono valsi al ristorante il premio del “museo della pasta”. Non c’è alcun dubbio. Il riconoscimento risale agli Anni 90, e non è l’unico. È un’epoca che piace da queste parti. Dalla tovaglia di carta color salmone, alle fettuccine col pesce surgelato sopra, agli arredi di mogano dei bei tempi andati, al quadro di un bimbo – ora adulto – che di fronte alla porta d’ingresso fissa chi entra con l’aria innocente e sincera a implorare: “Per il vostro bene, scappate!”. Forse è proprio uno degli avventori di Tripadvisor, da piccolo.
Ma comunque sarebbe già troppo tardi per tornare indietro. Sulla soglia i camerieri stanno come i buttadentro, ad “ac cala ppia re” gente per riempire questa cornice d’epoca. Fanno da sfondo le centinaia di bottiglie da 75cl di vino – prevalentemente Chianti – appoggiate a guardare gli ospiti dai bordi delle maioliche di finto cotto che ricoprono le pareti, quasi per intero. Non fossero lì (sempre con un occhio al museo) a spezzare la monocromia, a mezza altezza, le lastre di finto marmo in altorilievo che evocano scene di lotta e di caccia. Tipico italiano. Stesso stile anche per i frigoriferi verticali di acciaio e vetro che espongono prodotti doc, da supermercato, con tanto di etichetta di sconto al 30%. Caciotta romana, signori. Del discount. Sì, ma anche fosse, che ne saprebbero gli inglesi del tavolo in fondo che si sono spazzolati tutto e prima di andare via chiedono anche una camomilla. Il cameriere del Bangladesh non lo sa se c’è. Il proprietario, sì. Al lato opposto del corridoio-sala un’altra coppia, tedesca, aspetta il conto. Vanno via. Resterebbero volentieri, è solo che lei non sta bene. “Ho la febbre?”, chiede al marito. Speriamo. Pensiamo noi, che vorremmo seguirli.
EPPURE c’è chi non solto è entrato deciso, ma che ha anche apprezzato. Anzi. Ha fatto la scarpetta ai piatti sbeccati col brodo di “pesce scuro”. È la compagnia di australiani capeggiati dal signor Gino. Orginario dell’Abruzzo, nato a Melbourne con moglie egiziana. Cenano e viaggiano da cinque settimane con un’altra coppia. Lei nativa delle isole Mauritius, lui australiano e basta. “Tutto ottimo”, commenta Gino che parla bene la lingua perché è stato “cresciuto da nonna italiana”. “Con un piatto di pasta non sbagli mai”.