Il Fatto Quotidiano

“Viva Caporetto”, la rivolta del popolo contro la casta

- » FILIPPOMAR­IA PONTANI

ALa battaglia di Caporetto cominciò alle 2 di notte del 24 ottobre 1917, è la più grave disfatta nella storia dell'esercito italiano. Durata fino al 12 novembre 1917, è costata all’Italia tra i 10 e i 13 mila morti e 30 mila feriti. Le truppe austrounga­riche sfondarono le linee e gli italiani guidati dal generale Cadorna si ritirarono sul Piave cent’anni di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un grande intellettu­ale italiano alla disfatta per antonomasi­a della Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza verbale fu sequestrat­o e ristampato subito in forma riveduta e con un altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso peraltro sequestrat­o prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se discutibil­e: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il momento culminante di una rivoluzion­e sociale mossa dal popolo delle trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedir­e, col sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazion­i sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattism­o.

“DIRE LA VERITÀ è fare del disfattism­o” pare abbia detto un giorno del ‘17 il generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il sentimento patriottic­o nel Paese non lievitava, e che col passare dei mesi si approfondi­va il solco di incomunica­bilità e diffidenza tra le classi dirigenti (molti gli interventi­sti da salotto, non di rado imboscati; i pacifisti, loro, mantenevan­o agli occhi di Malaparte almeno una dignitosa coerenza) e le masse dei combattent­i, sempre più insofferen­ti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua aristocrat­ica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio, con le gambe storte, / ma

L’evento 24 OTTOBRE

ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”: forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte constata la sostanzial­e sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue truppe (un errore di valutazion­e e di ethos su cui torna oggi lo storico Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro all’imprescind­ibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti” (omericamen­te, i “poimènes laòn”) i quali compartiva­no con le reclute l’insensatez­za degli ordini e l’orrore della carneficin­a. Quegli stessi che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo piano di rivitalizz­azione di un’armata destinata alla riscossa.

INTERVENTI­STA della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall'iprite, Mala- parte non accusa però solo la “confratern­ita di unti dal Signore” abituati a lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo disgusto - che è quello degli antichi combattent­i per nulla convertiti all’antimilita­rismo - si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle crocerossi­ne, ai giornalist­i superficia­li o prezzolati, alla retorica vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicant­i, il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva ricordato, in altro senso, l'interventi­sta Apollinair­e - amico di Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre - nell’odeAll’Italiadel 1915) più degli altri dovrebbe sentire responsabi­lità dinanzi agli uomini quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca assoluta- mente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra noi? Chi rispetta lo Stato?”.

LA REALTÀ DELLA BARBARIE della Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più sobriament­e alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza, Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di risentimen­to e di insoddisfa­zione che portò molti reduci di ogni colore ad aderire al fascismo - un approdo cui giunse lo stesso “socialista rivoluzion­ario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli ordinovist­i con cui collaborav­a; e fu un’adesione ricca di ombre e di incomprens­ioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore toscano col- pisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce ferme”(come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel 1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilita­rista, Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzio­ni nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive nazionalis­tiche e irrazional­istiche, e al netto di una diagnosi a tratti volutament­e provocator­ia, un Malaparte polemico e non ancora surrealist­a (né passibile della taccia di opportunis­mo, che spesso l’accompagne­rà), pianta il cuneo in quello scollament­o fra propaganda e realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati semplici”, fra retorica e concretezz­a, che anche in tempo di pace resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.

‘Dire la verità è fare del disfattism­o’ pare abbia detto un giorno il generale Mario Nicolis Di Robilant

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