Ma siete sicuri che Don Milani fosse davvero un sovversivo?
Don Milani gode di un indiscusso “privilegio”: quello di essere costantemente destoricizzato, trasformato in correlativo oggettivo di una fase storica, anzi peggio, di un anno, il 1968. Il correlativo oggettivo ce l’ha spiegato nel 1919 Thomas Stearns Eliot cosa è: “Una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’e mozione particolare”.
Così, per molti, dire don Milani, Lettera a una professoressaè sufficiente per evocare un intero periodo storico, e suscitare una forte emozione negativa in un uditorio ormai contagiato da decenni di luoghi comuni, nel bene e nel male, sulla “meglio gioventù”, la “scuola anti autoritaria” e su su fino agli anni di piombo che non basterebbe una vita a smontarli. Da quel preciso momento, infatti, sarebbero nati tutti i mali di questo Paese, e vedremo nei prossimi mesi in concomitanza con l’anniversario del maggio francese, quante parole saranno sprecate da ex sessantottini a rimpiangere ma molto di più a deprecare quei tempi.
POI, PERÒ, andando a fare ricerca quello che si scopre è altro: si scopre per esempio che Lettera a una professoressa è molto letto fra il 1967 e il 1968 dagli studenti, è vero, ma lascia immediatamente il posto ad altri testi, che rimandano a una diversa forma di impegno. Più volantini davanti alle fabbri- che meno doposcuola, per intenderci.
Perché la Lettera chiama all’impegno individuale prima che a quello collettivo, un impegno preciso, concreto, come fa notare lo stesso don Milani a Alex Langer quando nel 1965 va a trovarlo: “Dovete abbandonare l’Università. Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra noi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza. Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo avanti, e poi un altro ancora, e così via. Ma se voi continuate a correre, gli altri non vi raggiungeranno mai”. E a Nadia Neri, giovane studentessa napoletana: “Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”.
Dunque la Lettera non incita alla rivolta astratta ma invita a fermarsi, guardarsi intorno, studiare quello che manca e rimboccarsi le maniche per cambiarlo. A partire dalla scuola, e nella scuola dall’educazione linguistica. Perché allora, a don Milani si fa risalire la genesi di un astratto egualitarismo, la fine della scuola, la distruzione del sapere?
MI SONO DOMANDATA come abbia avuto origine questa giustapposizione errata: come sia stato possibile che un libro pubblicato nel 1967, nato da venti anni di lavoro e riflessione sul destino scolastico dei più poveri, per di più pubblicato da una piccola casa editrice cattolica di Firenze, sia diventato nell’immaginario di ieri come di oggi il libretto rosso di una generazione. L’ho fatto partendo da lontano, cercando di delineare una possibile genealogia, raccontando le origini di un testo scritto collettivamente dai figli dei contadini del Mugello insieme a un prete morente, fra il 1966 e il 1967 in questo saggio che si intitola La Lettera sovve rs iv a ( Laterza) che riprende, fin dal titolo, uno degli aggettivi che da subito viene usato per attaccare il priore di Barbiana. Un aggettivo antico “sovversivo”, buono per gli anarchici, ma che anche negli anni sessanta è stato usato, pensate un po’, per bollare La storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, uscito per Laterza nel 1963. E poi prima, contro Leonardo Sciascia, e le sue Parrocchie di Regalpetra. Quanto poco basta in Italia per essere dichiarati sovversivi, scrive lo stesso Sciascia.
Ho poi cercato di capire come il movimento universitario l’abbia interpretato, sovrapponendolo alla rivoluzione culturale di Mao, e come sia giunto, così, fra mitizzazione e falsificazione, nelle mani degli insegnanti. Quanto abbia pesato non solo in Italia ma anche nel mondo ( tradotto pure a Hong Kong). E infine quale sia oggi il suo lascito se la nostra scuola, ancora, non è affatto così inclusiva come appare, se seleziona ancora in modo consistente, e lo fa nel periodo dell’obbligo scolastico, nel periodo cioè in cui dovrebbe portare tutti allo stesso livello fino in fondo. Ho provato a fare quello che suggerisce padre José Luis Corzo, il primo a fondare in Spagna una scuola sul modello di Barbiana: riprendere in mano la Lettera a una p ro f e ss o r es s a e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Confrontare le nostre ragioni più autentiche e profonde, con quel testo. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.
Libere opzioni. Sta a noi decidere se le troviamo ancora feconde oppure no.
Le parole del Priore di Barbiana “Dovete abbandonare l’Università Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra noi e la grande massa della gente non istruita”