La solidarietà per il Sud che arricchisce il nord
La redistribuzione delle risorse in linea con l’Europa sostiene crescita e coesione
Da come sono stati presentati dai promotori i quesiti referendari promossi dalle giunte leghiste assomigliano molto al dispositivo del Rosatellum bis: voti una cosa per ottenerne un’altra. Nel testo stampato su dodici milioni di schede elettorale si richiede un trasferimento di competenze e dei relativi finanziamenti dallo Stato alle due Regioni. Quindi a saldo zero.
Con gli argomenti usati per spingere la gente ad andare a votare, invece, si è cercato di convincere gli elettori che un voto favorevole porterebbe alla stessa autonomia speciale riconosciuta già a 5 Regioni. E anche al recupero del gap fiscale, difficilmente quantificabile, tra il valore di quello che i residenti in Lombardia e Veneto ricevono in termini di servizi e quanto versano con le imposte allo Stato centrale (il “residuo fiscale”, che per le 2 Regioni supera i 30 miliardi). L’articolo della Carta, il 116 terzo comma, citato dal quesito sulla scheda degli elettori lombardi, rimanda a un altro, il terzo comma del 117 dove sono elencate le materie di legislazione “concorrente” su cui le Regioni possono chiedere un ’ ulteriore cessione di sovranità dallo Stato. Di fatto la potestà legislativa è già in mano agli enti locali. Lo Stato detta solo i principi fondamentali. Il referendum aprirebbe al massimo una trattativa - costata ai contribuenti 70 milioni e che poteva essere ottenuta con una semplice lettera al governo come ha fatto l’E m ilia-Romagna - su una semplice partita di giro, altro che recupero dei residui fiscali.
CON LE COMPETENZEsi trasferirebbero infatti anche i fondi necessari ad assicurare ai cittadini i servizi erogati in base agli standard stabiliti per legge su tutto il territorio nazionale. Semmai si aprirebbe il dibattito se i finanziamenti debbano essere trasferiti dall’Erario all’ente locale o essere direttamente incamerati da Lombardia e Veneto con la tassazione locale, con reciproco sollievo per i rispettivi bilanci, statali e regionali, ma non per le tasche dei contribuenti.
Tra il 1946 e il 1963 fu riconosciuto uno statuto speciale a territori penalizzati soprattutto per ragioni di bilingui- smo ( Trentino Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta) e di isolamento geografico (Sicilia e Sardegna) per favorirne, si diceva, lo sviluppo e l’italianità. Erano aree che davano uno scarso apporto al Pil nazionale e per questo venivano sostenute per allinearle con il resto del paese. Da allora molti di quei presupposti sono caduti. Tanto che oggi si discute se abbia ancora un senso mantenere i loro privilegi fiscali e normativi. Veneto e Lombardia non hanno svantaggi geografici da compensare né minoranze etniche da tutelare. Anzi sono le più ricche Regioni del paese. Le aliquote fiscali da loro applicate sono uguali o inferiori a quanto pagano i cittadini italiani che risiedono nelle altre regioni. In realtà la portata delle risorse redistribuite in Italia si aggira intorno al 40%, come in Germania. L’intensità redistributiva oscilla tra il 32% e il 38% in Spagna e Francia. Le spese pro-capite dello Stato in Lombardia arrivano in media, tra il 2013 e il 2015, a 12.300 euro e a 11.700 euro in Calabria.
Se la solidarietà fra i cittadini è il collante su cui si basa il patto statuale, altrettanto allarmanti sarebbero le conseguenze economiche di una riduzione dei trasferimenti verso le Regioni più arretrate per le zone più produttive del Paese, che devono il loro sviluppo anche al colpevole stato di sottosviluppo in cui sono state confinate storicamente le regioni meridionali e che rappresentano il maggiore sbocco per le “esportazioni” del nord industrializzato. Per il Nord, il Mezzogiorno è un mercato di consumo vitale: vale tre volte le esportazioni verso l’Europa. Invocare lo stop alla solidarietà fiscale equivale più o meno a spararsi sui piedi.