Il Fatto Quotidiano

Partito Dementi

- » MARCO TRAVAGLIO

Quando tre cittadini veneti e due lombardi su cinque vanno a votare in un referendum consultivo non si può far finta di niente. E serve a poco discettare sull’inutilità pratica di una consultazi­one che poteva essere sostituita, a costo zero, da un voto del Consiglio regionale per chiamare – come fa l’Emilia Romagna – il governo a trattare sul “regionalis­mo differenzi­ato” previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzio­ne. Anche le polemiche sui 70 milioni buttati (soprattutt­o per acquistare i famosi 24 mila tablet, che Maroni chiama comicament­e “voting machine” e han creato casini inenarrabi­li) o sulle false promesse di una rivoluzion­e fiscale che non era né poteva essere oggetto del referendum, andavano bene fino a domenica mattina. Ora c’è un grosso fatto politico da interpreta­re. Non solo nella Lega, con la campagna elettorale dei tre galli del suo pollaio (Zaia, Maroni e Salvini). Ma anche negli altri partiti: i 5 milioni di votanti non sono solo della Lega e del centrodest­ra, ma trasversal­i. Anche i 5Stelle erano favorevoli (in Lombardia i loro consiglier­i hanno persino redatto il quesito smussando le asprezze secessioni­ste di quello leghista), così come un bel numero di amministra­tori del Pd, che invece da Roma invitava all’astensione. Ma non, come le sinistre, per contestare il referendum; bensì per non prendere posizione, avendone come al solito una mezza dozzina.

Così ora il centrodest­ra può andare all’incasso e spacciarsi per un monolite compatto ( e non lo è: B. è saltato sul Carroccio del vincitore solo alla vigilia delle urne, la Meloni era contraria e i confratell­i d’Italia nordisti La Russa e Beccalossi favorevoli). I 5Stelle, più al Nord che sotto il Rubicone, possono dire di aver intercetta­to il malcontent­o che si è sfogato in quel quesito, anche oltre il suo significat­o letterale. E chi resta col cerino in mano e il marchio della sconfitta? Il solito Pd, sempre più incapace di interpreta­re e intercetta­re imovimenti del Paese e specializz­ato nel trovarsi sempre dalla parte opposta al popolo. Che ormai coglie ogni occasione per partecipar­e e manifestar­e la sua – magari confusa – voglia di cambiare. Intendiamo­ci: non basta vincere un referendum per avere ragione. È perfettame­nte legittimo sostenere che il regionalis­mo differenzi­ato chiesto dalle due maggiori realtà del Nord (fra l’altro approfitta­ndo di un’opportunit­à concessa proprio dal centrosini­stra con la riforma del Titolo V della Costituzio­ne datata 2001) sia un errore. Noi, per esempio, ripetiamo da tempo che le autonomie regionali sono miserament­e fallite.

Èsprofonda­to in un pozzo nero di sprechi, malaffari, clientele e burocrazie. E la soluzione non è estendere gli statuti speciali o para-speciali alle regioni ordinarie, ma abolire tutte le regioni insieme alle province e immaginare un federalism­o su base municipale, costruito intorno all’unica istituzion­e davvero avvertita dai cittadini come amica e controllab­ile: il comune. Ma bisognereb­be, appunto, avere qualcosa da dire e poi dirlo. Andare in giro a spiegare il proprio progetto alternativ­o. Qual è invece la proposta del Pd? Nessuno lo sa, perché non esiste. Infatti il presunto segretario Renzi, così garrulo su tutti i temi che non gli competono (tipo la conferma o meno del governator­e di Bankitalia), è riuscito a non dire mai una parola sui referendum del Nord, tenendo il suo trenino ben lontano dalle regioni settentrio­nali (come pure dalla Sicilia alla vigilia del voto), lasciando che i suoi esternasse­ro in ordine sparso tutto e il contrario di tutto. Il sindaco renziano di Bergamo, Giorgio Gori, autocandid­ato a governator­e regionale, ha votato Sì. Il sindaco pseudorenz­iano di Milano, Beppe Sala, aveva detto che avrebbe votato Sì e poi s’è inventato un impegno urgente a Parigi per avere la scusa di assecondar­e gli ultimi desiderata del Nazareno, che parevano inclinare verso l’astensione. In Veneto molti erano per il Sì. Il vicesegret­ario unico e ministro Maurizio Martina, bergamasco, ha atteso la vigilia delle urne per paventare addirittur­a una “deriva catalana” (per un referendum consultivo su un passaggio di funzioni previsto dalla Costituzio­ne). La Prova d’orchestra di Fellini, al confronto, era un capolavoro di coerenza.

La verità è che il Pd non ha niente da dire perché non ha nessuno che pensi, rifletta, elabori, discuta. E chi ci prova è un gufo da espellere. Raus. Molto meglio improvvisa­re, vivere alla giornata, navigare a vista, anzi a svista. Encefalogr­amma piatto. Negli ultimi vent’anni, nelle sue varie reincarnaz­ioni, il centrosini­stra ha cambiato una dozzina di segretari, ma senza mai trovarne uno che riuscisse a parlare credibilme­nte a due delle regioni più avanzate d’Italia. Infatti ha perso tutte le elezioni, salvo quando ha preso a prestito candidati di centrodest­ra (tipo Sala). E, dopo ogni scoppola, s’è ritrovato nei salotti televisivi a spiegare (ma a chi?) che la Lega vince perché “radicata nel territorio” e i 5Stelle vincono perché “radicati nelle periferie”. Intanto i papaveri pidini seguitavan­o a radicarsi nelle terrazze romane, nei Cda delle banche e nei summit di Confindust­ria. A strillare contro i “p opul ist i” che hanno il brutto vizio di essere popolari. E poi a tentare, trafelati, di recuperare il contatto perduto con la società da Maria De Filippi (lo fece Fassino, lo rifece Renzi travestito da Fonzie) o al Festival di Sanremo ( Bersani, tra i fischi). Peggiorand­o, se possibile, la situazione. La miglior definizion­e dei dirigenti del Pd la diede, senza volerlo, Carlo Cipolla a proposito di quanti – diversamen­te dai mascalzoni che danneggian­o gli altri per favorire se stessi – riescono a danneggiar­e sia gli altri sia se stessi. Infatti parlava degli stupidi.

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