“Ma questa Anna chi era?” e la memoria all’ultimo stadio
“Ma questa Anna Frank, precisamente, chi era?”. Sinisa Mihajlovic cita a sua insaputa Aldo, Giovanni e Giacomo in Chiedimi se sono felice (“Ma precisamente, questo Kafkian, chi è?”) e pone la questione delle cento pistole. Chi era questa ragazzina ebrea morta a 16 anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e deportata alla ribalta della cronaca per mezzo di chi usa il calcio per fare apologia di nazismo? Mihajlovic l’ha paragonata a Ivo Andric, ma Andric è uno scrittore, un grande scrittore; se Anna Frank fosse solo una scrittrice nessuno nelle curve se la sarebbe filata, i nazisti i libri li bruciano. Ma Anna è soprattutto un simbolo: non solo della Shoah, ma del “restare umani” nonostante la Shoah, del poter fare ancora poesia dopo Auschwitz nonostante la celebre sentenza di Adorno. Era inevitabile che un simbolo così luminoso rimbalzasse nell’ultimo rifugio del sacro e insieme dell’orrore, il calcio. Dalle curve, il simbolo ha percorso la via crucis di tutte le immagini del nostro tempo, condivisioni, hashstag, t-shirt, visite riparatorie in moschea – pardon, in sinagoga –, lettura del Diario prima della partita, la conoscenza coatta come antidoto all’orgoglio della barbarie (ma forse negli stadi bisognerebbe leggere Sorvegliare e punire di Foucault). “Famo sta sceneggiata”; l’altra grande verità, sempre a sua insaputa, l’ha detta Claudio Lotito. Qualcuno potrebbe concludere che allora Adorno aveva ragione; dopo Auschwitz niente più poesia, soltanto sceneggiate.