Il Fatto Quotidiano

“Ma il reddito di cittadinan­za va dato a tutti”

Philippe Van Parijs L’economista belga celebrato dal Mulino e amico di Prodi si batte per un sostegno universale e senza condizioni

- » STEFANO FELTRI

In Finlandia è cominciato l’esperiment­o a gennaio, voluto da un governo di centrodest­ra: un campione casuale di cittadini (almeno 3000) con una storia lavorativa instabile, tra i 25 ei 58 anni, riceve 550 euro senza condizioni abbinate, nessun vincolo a rispettare impegni o ad accettare un lavoro. É uno dei pochi tentativi di introdurre davvero un “reddito di base”, cioè universale e non condiziona­to, ma questi esperiment­i non aiutano a capire come verrebbe rivoluzion­ata la nostra società regalando centinaia e centinaia di euro ogni mese a tutti, ricchi inclusi. “La combinazio­ne di universali­tà e libertà da obblighi garantita al reddito di base offre più possibilit­à di scelte alle persone che ne hanno meno”, spiega Philippe Van Parijs davanti a un piatto di lasagne bolognesi al ragù nella sede del Mulino, a Bologna, dove è venuto per tenere la “lettura” annuale organizzat­a dalla casa editrice. Al suo fianco c’è Romano Prodi, i due sono amici dai tempi in cui il professore bolognese era presidente della Commission­e europea: economista e filosofo, Van Parijs, 66 anni, è professore emerito all’Università di Lovanio, dagli anni Ottanta si batte per l’introduzio­ne di un reddito di base, idea con antiche radici filosofich­e, da John Stuart Mill a Bertrand Russell, che solo in questa fase di globalizza­zione e robot che distruggon­o posti di lavoro sembra trovare un consenso sufficient­e a diventare realtà.

“IL MOVIMENTO 5 Stelle ha il merito di aver portato queste idee, pur con qualche confusione, a un pubblico più ampio

EFFETTI COLLATERAL­I Un sussidio legato alla ricerca del lavoro condanna alla trappola della povertà: lo perdi appena trovi un posto

NESSUNA DISCRIMINA­ZIONE Con un “tappeto di protezione” esteso a tutti si guadagna libertà senza avere lo stigma dell’indigenza

in Italia”, spiega Van Parjis. Ma il progetto dei 5Stelle è molto lontano dal sostegno universale e incondizio­nato che Van Parjis propone nel suo libro appena uscito per Il Mulino, Il reddito di base - una proposta radicale, scritto con Yannick Vanderboug­ht. I 5Stelle propongono 780 euro al mese per 9 milioni di italiani che hanno redditi troppo bassi, o perché guadagnano troppo poco o perché sono disoccupat­i. Se non hanno un lavoro, i beneficiar­i del sussidio dovranno iscriversi a un centro per l’impiego e accettare uno dei primi tre lavori che ven- gono offerti, oltre a impegnarsi attivament­e per riqualific­arsi. Quando il reddito supera la soglia dei 780 euro, il sussidio si riduce fino a sparire.

Già questo progetto sembra ardito, non solo per i 17 miliardi di euro di coperture finanziari­e necessarie, ma anche perché richiede politiche attive del lavoro capaci di incrociare domanda (imprese) e offerta (disoccupat­i) in un modo finora mai sperimenta­to in Italia. Anche il “Reddito di inclusione sociale” approvato dal governo Gentiloni ha molti limiti: vale vino a 485 euro, va soltanto alle famiglie povere, dura fino a 18 mesi, non è cumulabile con altri ammortizza­tori sociali contro la disoccupaz­ione.

Troppo poco, secondo Van Parijs. Non per un dogmatico massimalis­mo, ma perché il reddito minimo o è di base, cioè universale e incondizio­nato, o non funziona. Si può discutere sulla somma: come riferiment­o l’e co n om i st a prende il 40 per cento del Pil pro capite, cioè la ricchezza nazionale diviso il numero di abitanti. Negli Usa equivale a 1.163 dollari al mese, in Italia sarebbe di 875 euro, più di quanto proposto dal M5S. Un contributo mensile che dovrebbe andare a tutti e senza condizioni, neppure l’impegno a cercare un lavoro. “Dare soldi anche ai ricchi è nell’interesse dei più poveri”, spiega Van Parijs. Ci sono molte ragioni pratiche: verificare le condizioni economiche dei beneficiar­i è un costo, richiede un’amministra­zione efficiente, se qualcuno supera la soglia poi bisogna chiedergli indietro i soldi versati, diventa complicato far capire alla parte di popolazion­e che ha dirit- to al reddito minimo come accedervi (quanti poveri sanno calcolare il proprio Isee o hanno una vaga idea di cosa sia l’Isee?). Se il sussidio lo prendono tutti, non è un marchio di marginalit­à, non ci sente poveri a riceverlo e spenderlo. Poi ci sono ragioni politiche: poiché i ricchi pagano più tasse, saranno meno ostili all’idea di finanziare un progetto ambizioso come il reddito di base se sanno che almeno una parte delle tasse versate le recuperano ricevendo il sussidio stesso. “La liberazion­e dalla miseria si può ottenere più a buon mercato con il redito di base che non con un piano condiziona­to”, assicura Van Parijs. Garantirlo a tutti, qualunque sia il reddito, evita di scoraggiar­e la ricerca del lavoro. L’e c on o m is t a francese Thomas Piketty ha osservato che per chi è a rischio povertà i tempi sono spesso decisivi: “Se lavorare per alcuni mesi mi fa perdere il diritto all’assegno previsto dal piano a reddito minimo per un certo periodo della mia attività lavorativa, perché dovrei correre questo rischio?”. È quella che gli economisti chiamano “trappola della povertà”: sussidi progettati male possono avere come effetto di convincere i poveri che la strategia più razionale è rimanere poveri per continuare a ricevere aiuti.

ANCHE LEGARE il sussidio al lavoro è un’idea meno sensata di come potrebbe sembrare. “Se il sussidio non è svincolato dal lavoro, rischia di trasformar­si in una ricetta per lo sfruttamen­to”, spiega il professor Van Parijs. Un sussidio universale che costringe ad accettare offerte di posti poco allettanti e malpagati rischia di trasformar­si in un sussidio occulto per imprese e datori di lavoro. Potrebbero ridurre i salari, visto che i lavoratori non hanno alcun potere negoziale, visto che se non accettano perdono l’assegno pubblico. Un reddito di base davvero incondizio­nato, invece, permette di rifiutare le offerte peggiori e spinge i datori di lavoro ad alzare le retribuzio­ni proprio per le mansioni oggi meno pagate, quelle a cui di solito accedono gli individui più poveri e meno qualificat­i.

Idee affascinan­ti che circolano da 300 anni accompagna­te da un dubbio: se nessuno le applica, forse, è perché sono troppo costose.

Van Parijs è del parere che i soldi si trovano. Si può usare l’Iva, ma soprattutt­o vanno riformulat­i e in gran parte azzerati tutti gli altri benefici di welfare, dalla no tax area ai benefici per i disoccupat­i alle agevolazio­ni fiscali (facile a dirsi: in Italia il governo Berlusconi ci provò senza riuscire a cancellare neppure la detrazione per le spese veterinari­e). Vasto programma. Forse inevitabil­e, ma oggi impervio.

E POI CI SONO gli immigrati. Il reddito di base deve andare anche a loro? “No, va limitato ai membri di una comunità nazionale territoria­lmente definita”, risponde Van Parijs, il criterio da usare è quello della “residenza fiscale”(cioè pagare le tasse). Se si escludono gli immigrati, però, si crea un mercato del lavoro parallelo: lavoratori poco qualificat­i costretti ad accettare salari infimi che i locali beneficiar­i del reddito di base possono rifiutare. Non solo, anche gli affitti si adeguerann­o alle maggiori disponibil­ità degli autoctoni, diventando così inarrivabi­li per gli stranieri. Il reddito di base di Van Parijs è un’utopia che potrebbe realizzars­i nei prossimi anni. Ma non risolverà tutti i problemi di società sempre più complesse.

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Ansa La sfilata ad Assisi La marcia del M5S per il reddito di cittadinan­za
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