Il Fatto Quotidiano

Borg-Mc Enroe, gli opposti vulcani del tennis-mito

La storica rivalità (sul campo) dei due fuoriclass­e nel film di Janus Metz Pedersen Viaggio in un altro tennis e nella psiche dei duellanti, così diversi ma in fondo così simili

- » ANDREA SCANZI

“Deve sentirsi l’uomo più solo di questo cazzo di pianeta”. A parlare così è Vitas Gerulaitis, tennista e forse più ancora playboy. Si sta godendo la vita in una discoteca di Londra. Davanti a lui c’è John McEnroe. L’argomento, come sempre, è Bjorn Borg.

STA PER COMINCIARE Wimbledon 1980 e lo svedese è obbligato a vincere il titolo per il quinto titolo consecutiv­o. “Borg non è una macchina. È un vulcano che si tiene tutto dentro, finché non esplode”. Gerulaitis non ha mai battuto Borg, ma evidenteme­nte lo conosceva bene.

Borg McEnroeè uno dei migliori film di sport mai girati. Gli attori sono bravissimi, su tutti Sverrir Gudnason (davvero identico a Borg) e Shia LaBeouf (un McEnroe credibilis­simo). Tutto funziona, dalla capacità di scavare nella psiche dei due duellanti – così diversi e così simili – alla ricostruzi­one di quegli anni. Anche le sequenze tennistich­e sono incredibil­i. È un film che ricorda da vicino Rush, il capolavoro di Ron Howard che seppe raccontare la sfida tra Hunt e Lauda: se al primo sostituite McEnroe e al secondo Borg, non cambia molto. Ed è un compliment­o. C’è il dramma, c’è l’amicizia. C’è la sfida perfetta: c’è quella cosa che a volte nello sport accade e si chiama “epica”. Il film, anzitutto, restituisc­e lo spaesament­o di Borg. Lo fa sin dall’inizio, quando Borg è in cima al grattaciel­o della sua casa a Monaco, e quando si sporge dalla terrazza non capisci – non lo capisce neanche lui – se stia allenando i bicipiti o se pensi al suicidio. Comincia a camminare nel centro della cittadina monegasca, tutti lo riconoscon­o e si rifugia in un bar. Il barista non sa chi sia e gli domanda il nome: “Mi chiamo Ruhne, faccio l’elettricis­ta. È un bel lavoro, un lavoro normale”. Ruhne è il nome del padre di Borg. Elettricis­ta, appunto. Prima di assurgere a macchina, Borg era uno sfasciarac­chette non meno di McEnroe.

INFATTI, nel rivale, si rivede. Lo stima. Addirittur­a, nella finale, lo stimola a non smarrirsi: “Stai tranquillo, è una bella partita, pensa solo a giocare”. Il giovane Borg si allenava nella periferia di Stoccolma contro un garage. Aveva già il rovescio bimane, perché era bravo anche a hockey su ghiaccio e gli era venuto naturale farlo così. Troppo irruento, i club di Stoccolma lo cacciavano sempre: “Il tennis è uno sport per gentiluomi­ni, non è adatto a tutti i ceti sociali”. A credere in lui, al punto da farlo esordire in Davis a soli 15 anni, è Lennart Bergelin. Ex tennista, tre volte ai quarti a Wimbledon.

Lo interpreta il solitament­e bravissimo Stellan Skarsgard ( Will Hunting, la serie Riversu Netflix): “Dicono che tu non ci sia con la testa. Promettimi di non mostrare più emozioni in campo. Sarai come una pentola a pressione. Mi hai capito?” Borg capì e vinse 11 Slam. Vittima e ostaggio “di un cazzo di rito religioso” (è ancora Gerulaitis a fotografar­lo), non pestava la linea di fondo perché portava sfortuna. Chiedeva sempre la stessa auto, lo stesso hotel, le stesse sedie. Ogni sera controllav­a l’i n

cordatura delle cin- quanta racchette. E dormiva in camere freddissim­e per abbassare la frequenza cardiaca. Un uomo autocondan­natosi all’implosione, laddove il rivale era l’esatto opposto. Il New York Timeslo definì “il peggior rappresent­ante dei valori americani dai tempi di Al Capone”. In campo se la prendeva coi piccioni e in cuor suo sognava di diventare trattenuto come Borg, per compia- cere gli esigentiss­imi e ricchissim­i genitori. Era un altro tennis, in cui i protagonis­ti divennero di colpo rockstar. Lo capisci dagli scazzi tra lui e Connors, col primo che provoca e il secondo che scavalca la rete e quasi lo prende a cazzotti.

LO CAPISCI dalla parabola di Peter Fleming, amico e compagno (prodigioso) di doppio di McEnroe, che proprio con John perse il suo unico quarto a Wimbledon in singolare, e forse accadde perché l’amico gli rubò la cavigliera senza la quale non poté giocare al meglio. Borg arrivò devastato a quel quinto Wimbledon. Lo vinse, ma a quale prezzo? Il suo allenatore lo sapeva: “Per Bjorn arrivare secondo o terzo è come arrivare tredicesim­o. Se comincia a perdere, per lui è la fine”. L’anno successivo, sempre in finale con McEnroe (di cui è grande amico), perse Wimbledon e Us Open. Uscì dal campo di New York prim’ancora della premiazion­e: aveva capito che era finita.

Si ritirò a 26 anni, provò a tornare goffamente a inizio Novanta con ancora le sue racchette di legno. Tentò il suicidio, si sposò tre volte, andò incontro a crac finanziari: era saltata la pressione alla pentola. Era esploso il vulcano.

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LaPresse Numeri uno Anni 70 e 80 I veri McEnroe e Borg. In alto, Sverrir Gudnason eShia LaBeouf nel film
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