Dietro gli arresti di Bin Salman il futuro post petrolio dell’Arabia
LLE INDAGINI
A decidere è stata la Commissione governativa anticorruzione creata dal Principe dopo le indagini per “corruzione e appropriazioni sistematiche”, che duravano da tre anni. Il procuratore generale ha parlato di 100 miliardi di dollari accumulati indebitamente e tinte fosche del capolavoro di Rossellini, La presa del potere da parte di Luigi XIV, sembrano affrescare il cielo sopra Ryad. Ma nel Medioriente profondo, dove i giochi di specchi deformanti assurgono a forma d’arte, la lettura degli eventi si snoda in un ipnotico labirinto.
Dal 1953, quando morì re Abdulaziz ibn Saud, fondatore del regno a cui conferì il nome della sua stirpe (vasto più di Germania, Italia, Spagna e Francia messe insieme), il Trono è passato di fratello in fratello a sei dei suoi figli, fino all’attuale sovrano, Salman. Ma l’inesorabile incedere del tempo ha posto fine alla sequenza di successioni orizzontali. L’uomo predestinato a rappresentare il salto generazionale era il quasi 60enne Muhammad bin Nayef, nipote diretto del vecchio Abdulaziz, nominato da re Salman Principe della Corona. L’insolita investitura di vice-Principe della Corona invece era toccata al figlio 30enne del re, Mohammed bin Salman (che tutti indicano con le iniziali MbS). Ministro della Difesa, nonché architetto di un ambizioso piano economico “Vision 2030”, MbS occupa anche il vertice dell’Aramco, la compagnia petrolifera di Stato, forse l’azienda più grande del mondo (di fatto uno Stato nello Stato) che l’anno venturo sarà quotata in Borsa con la più colossale operazione di tutti i tempi.
IN SOSTANZA, la linea di successione tra i cugini (di generazioni diverse) pareva assodata. Ma il 21 giugno scorso è avvenuto un colpo di scena sconvolgente per una nazione sempre paralizzata dalla ricerca del consenso tra le migliaia di membri della famiglia reale. Muhammad bin Nayef veniva defenestrato da re Salman e MbS diventava Principe della Corona concentrando poteri economici, amministrativi e di sicurezza interna senza precedenti. Ma quando sembrava che il turbolento corso degli eventi si fosse arrestato, nei giorni scorsi MbS ha ordinato un maoista bombardamento del quartier generale. Con l’accusa di corruzione sono stati rinchiusi al Ritz Carlton, riadattato a prigione dorata, oltre 200 figure politiche e imprenditoriali ritenute finora intoccabili, tra cui 11 principi di sangue reale. Il personaggio di spicco è Miteb bin Abdullah capo della Guardia nazionale (l’unico apparato di sicurezza non ancora sotto il controllo di MbS). Le indagini, secondo il procuratore generale Saud Al Mojeb, duravano da tre anni e hanno riguardato “corruzione e appropriazioni sistematiche”, fenomeno non ignoto persino alle anime ingenue. Al Mojeb ha parlato di 100 miliardi di dollari accumulati indebitamente, ma nei pettegolezzi e nei retroscena si sparano cifre fino a dieci volte superiori.
Sia come sia, recidere i tentacoli dell’Ancien Régime è un imperativo imposto dalla pesante situazione economica, con il calo del prezzo del petrolio che ha mandato al tappeto l’equilibrio di bilancio pubblico. In particolare, MbS ha di fronte un orizzonte di 50 anni durante i quali l’era del petrolio terminerà. Pertanto si impone una ristrutturazione radicale dell’economia saudita attraverso riforme epocali volte a scardinare lo status quo. Per assicurare la sopravvivenza della monarchia e il benessere dei sudditi, occorre annichilire i tre maggiori centri di resistenza alle riforme: il clero estremista wahabita, la burocrazia neghittosa e l’imprenditoria parassitaria abbarbicata alla greppia statale grazie al censo o alle tangenti. Un re primus inter pares, dai poteri parcellizzati in mille rami della famiglia, sotto tutela degli imam, sottoposto a decisioni di comitati pletorici non può fare tabula rasa. Inoltre l’urgenza è esacerbata dal ticchettio sempre più incalzante della bomba demografica. Con un tasso annuo di crescita della popolazione che all’inizio degli anni ‘80 era al 6% e dall’inizio del secolo ha oscillato tra il 2% e il 3%, la popolazione da circa 32 milioni oggi, arriverà a 40 milioni nel 2030.
Per dare lavoro a milioni di nuove leve il Paese dovrà aprirsi ai capitali stranieri, sviluppare i settori innovativi, instaurare un sistema legale moderno, ridisegnare l’istruzione oggi in mano ai religiosi, attirare talenti a livello globale. E soprattutto non potrà rimanere un luogo lugubre controllato e oppresso dalla polizia religiosa. Anche per questo MbS concedendo la patente alle donne ha segnalato che la versione puritana dell’Islam ha esaurito il suo tempo.
I GIOVANI e le giovani saudite che si sentono più di casa a Londra o a Dubai costituiscono l’entusiastica base di consenso su cui si fonda il potere di MbS e saranno i maggiori beneficiari del nuovo corso.
Tuttavia MbS ha un tallone di Achille: il fronte esterno e lo scontro con l’Iran che l’erede al trono ha intensificato sia attraverso la guerra in Yemen sia attraverso iniziative plateali contro il Qatar e di recente all’indirizzo del Libano.
Nonostante il forte appoggio americano, gli insuccessi hanno prevalso e lo scontento in futuro potrebbe allignare. I nemici, che per quanto decimati non sono ancora debellati, attendono nell’ombra un passo falso.
* Chief Strategy Fondo sovrano
dell’Oman ▶PER DIFENDERSI
da attacchi concentrici, i saperi umanistici si sono piegati ad alcuni mantra apparentemente indiscutibili: la supremazia dei supporti digitali, il monolinguismo inglese, il paradigma epistemologico delle scienze “dure". Tutto ciò non si riflette soltanto nei meccanismi della valutazione della ricerca universitaria, ma anche nel sorgere, sia nell’istruzione che nella ricerca, di forme di "intrattenimento colto” dilettantesco, che si traducono in iniziative, finanziamenti, progetti tutti intrisi (spesso a sproposito) di “digitale” a danno di approcci più tradizionali ma più utili per la formazione e l’avanzamento del sapere. Il discorso vale dai piani “alti” della ricerca accademica (l’ubriacatura delle digital humanities) fino a quelli più quotidiani del “tablet in classe”. Il libro di Lorenzo Tomasin è in questo senso un balsamo: sfida i luoghi comuni, smonta la retorica del presente e della tecnica e prova a rivendicare per le humanities un ruolo non solo ancillare ma propositivo, volto ad articolare il pensiero in più lingue e non solo in una (il “globish” che differisce dal latino in quanto è un compromesso al ribasso), a mettere in grado i cittadini di difendersi dalla "post-verità", a superare - per dirla con Günther Anders - la nostra “vergogna prometeica” senza cadere in uno stolido passatismo. Fuori dalla moda presente, sostiene Tomasin, la tecnologia digitale tornerà a essere quel che dev’essere, uno strumento essenziale di studi che non vedono però in essa il loro fine. L’importante è che, nel frattempo, la furia iconoclasta non distrugga troppi libri di carta, troppi insegnamenti, troppe discipline; che gli umanisti, invece di inseguire ciò che pare oggi nuovo e ”utile”, insegnino a usarlo con giudizio, a capirlo meglio, a metterlo in discussione.
Bomba demografica
Il numero di abitanti che il Paese avrà nel 2030