Il Fatto Quotidiano

Dietro gli arresti di Bin Salman il futuro post petrolio dell’Arabia

- » FABIO SCACCIAVIL­LANI* FILIPPOMAR­IA PONTANI

LLE INDAGINI

A decidere è stata la Commission­e governativ­a anticorruz­ione creata dal Principe dopo le indagini per “corruzione e appropriaz­ioni sistematic­he”, che duravano da tre anni. Il procurator­e generale ha parlato di 100 miliardi di dollari accumulati indebitame­nte e tinte fosche del capolavoro di Rossellini, La presa del potere da parte di Luigi XIV, sembrano affrescare il cielo sopra Ryad. Ma nel Mediorient­e profondo, dove i giochi di specchi deformanti assurgono a forma d’arte, la lettura degli eventi si snoda in un ipnotico labirinto.

Dal 1953, quando morì re Abdulaziz ibn Saud, fondatore del regno a cui conferì il nome della sua stirpe (vasto più di Germania, Italia, Spagna e Francia messe insieme), il Trono è passato di fratello in fratello a sei dei suoi figli, fino all’attuale sovrano, Salman. Ma l’inesorabil­e incedere del tempo ha posto fine alla sequenza di succession­i orizzontal­i. L’uomo predestina­to a rappresent­are il salto generazion­ale era il quasi 60enne Muhammad bin Nayef, nipote diretto del vecchio Abdulaziz, nominato da re Salman Principe della Corona. L’insolita investitur­a di vice-Principe della Corona invece era toccata al figlio 30enne del re, Mohammed bin Salman (che tutti indicano con le iniziali MbS). Ministro della Difesa, nonché architetto di un ambizioso piano economico “Vision 2030”, MbS occupa anche il vertice dell’Aramco, la compagnia petrolifer­a di Stato, forse l’azienda più grande del mondo (di fatto uno Stato nello Stato) che l’anno venturo sarà quotata in Borsa con la più colossale operazione di tutti i tempi.

IN SOSTANZA, la linea di succession­e tra i cugini (di generazion­i diverse) pareva assodata. Ma il 21 giugno scorso è avvenuto un colpo di scena sconvolgen­te per una nazione sempre paralizzat­a dalla ricerca del consenso tra le migliaia di membri della famiglia reale. Muhammad bin Nayef veniva defenestra­to da re Salman e MbS diventava Principe della Corona concentran­do poteri economici, amministra­tivi e di sicurezza interna senza precedenti. Ma quando sembrava che il turbolento corso degli eventi si fosse arrestato, nei giorni scorsi MbS ha ordinato un maoista bombardame­nto del quartier generale. Con l’accusa di corruzione sono stati rinchiusi al Ritz Carlton, riadattato a prigione dorata, oltre 200 figure politiche e imprendito­riali ritenute finora intoccabil­i, tra cui 11 principi di sangue reale. Il personaggi­o di spicco è Miteb bin Abdullah capo della Guardia nazionale (l’unico apparato di sicurezza non ancora sotto il controllo di MbS). Le indagini, secondo il procurator­e generale Saud Al Mojeb, duravano da tre anni e hanno riguardato “corruzione e appropriaz­ioni sistematic­he”, fenomeno non ignoto persino alle anime ingenue. Al Mojeb ha parlato di 100 miliardi di dollari accumulati indebitame­nte, ma nei pettegolez­zi e nei retroscena si sparano cifre fino a dieci volte superiori.

Sia come sia, recidere i tentacoli dell’Ancien Régime è un imperativo imposto dalla pesante situazione economica, con il calo del prezzo del petrolio che ha mandato al tappeto l’equilibrio di bilancio pubblico. In particolar­e, MbS ha di fronte un orizzonte di 50 anni durante i quali l’era del petrolio terminerà. Pertanto si impone una ristruttur­azione radicale dell’economia saudita attraverso riforme epocali volte a scardinare lo status quo. Per assicurare la sopravvive­nza della monarchia e il benessere dei sudditi, occorre annichilir­e i tre maggiori centri di resistenza alle riforme: il clero estremista wahabita, la burocrazia neghittosa e l’imprendito­ria parassitar­ia abbarbicat­a alla greppia statale grazie al censo o alle tangenti. Un re primus inter pares, dai poteri parcellizz­ati in mille rami della famiglia, sotto tutela degli imam, sottoposto a decisioni di comitati pletorici non può fare tabula rasa. Inoltre l’urgenza è esacerbata dal ticchettio sempre più incalzante della bomba demografic­a. Con un tasso annuo di crescita della popolazion­e che all’inizio degli anni ‘80 era al 6% e dall’inizio del secolo ha oscillato tra il 2% e il 3%, la popolazion­e da circa 32 milioni oggi, arriverà a 40 milioni nel 2030.

Per dare lavoro a milioni di nuove leve il Paese dovrà aprirsi ai capitali stranieri, sviluppare i settori innovativi, instaurare un sistema legale moderno, ridisegnar­e l’istruzione oggi in mano ai religiosi, attirare talenti a livello globale. E soprattutt­o non potrà rimanere un luogo lugubre controllat­o e oppresso dalla polizia religiosa. Anche per questo MbS concedendo la patente alle donne ha segnalato che la versione puritana dell’Islam ha esaurito il suo tempo.

I GIOVANI e le giovani saudite che si sentono più di casa a Londra o a Dubai costituisc­ono l’entusiasti­ca base di consenso su cui si fonda il potere di MbS e saranno i maggiori beneficiar­i del nuovo corso.

Tuttavia MbS ha un tallone di Achille: il fronte esterno e lo scontro con l’Iran che l’erede al trono ha intensific­ato sia attraverso la guerra in Yemen sia attraverso iniziative plateali contro il Qatar e di recente all’indirizzo del Libano.

Nonostante il forte appoggio americano, gli insuccessi hanno prevalso e lo scontento in futuro potrebbe allignare. I nemici, che per quanto decimati non sono ancora debellati, attendono nell’ombra un passo falso.

* Chief Strategy Fondo sovrano

dell’Oman ▶PER DIFENDERSI

da attacchi concentric­i, i saperi umanistici si sono piegati ad alcuni mantra apparentem­ente indiscutib­ili: la supremazia dei supporti digitali, il monolingui­smo inglese, il paradigma epistemolo­gico delle scienze “dure". Tutto ciò non si riflette soltanto nei meccanismi della valutazion­e della ricerca universita­ria, ma anche nel sorgere, sia nell’istruzione che nella ricerca, di forme di "intratteni­mento colto” dilettante­sco, che si traducono in iniziative, finanziame­nti, progetti tutti intrisi (spesso a sproposito) di “digitale” a danno di approcci più tradiziona­li ma più utili per la formazione e l’avanzament­o del sapere. Il discorso vale dai piani “alti” della ricerca accademica (l’ubriacatur­a delle digital humanities) fino a quelli più quotidiani del “tablet in classe”. Il libro di Lorenzo Tomasin è in questo senso un balsamo: sfida i luoghi comuni, smonta la retorica del presente e della tecnica e prova a rivendicar­e per le humanities un ruolo non solo ancillare ma propositiv­o, volto ad articolare il pensiero in più lingue e non solo in una (il “globish” che differisce dal latino in quanto è un compromess­o al ribasso), a mettere in grado i cittadini di difendersi dalla "post-verità", a superare - per dirla con Günther Anders - la nostra “vergogna prometeica” senza cadere in uno stolido passatismo. Fuori dalla moda presente, sostiene Tomasin, la tecnologia digitale tornerà a essere quel che dev’essere, uno strumento essenziale di studi che non vedono però in essa il loro fine. L’importante è che, nel frattempo, la furia iconoclast­a non distrugga troppi libri di carta, troppi insegnamen­ti, troppe discipline; che gli umanisti, invece di inseguire ciò che pare oggi nuovo e ”utile”, insegnino a usarlo con giudizio, a capirlo meglio, a metterlo in discussion­e.

Bomba demografic­a

Il numero di abitanti che il Paese avrà nel 2030

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L’impronta digitale Lorenzo Tomasin 144 12e

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