Il Fatto Quotidiano

Messina Denaro, “la famiglia mantenuta col traffico d’arte”

Operazione della Dia Sequestrat­a un’ala del castello risalente a Federico II e capolavori per milioni di euro a un imprendito­re già legato al padre del boss

- » GIUSEPPE LO BIANCO

Ha fatto affari con i musei di tutto il mondo, dal Louvre al Metropolit­an di New York, e ha rifornito di opere d’arte le maggiori università, dalla Columbia a Pricenton e Yale. Oggi è proprietar­io di un parco di 25 mila ettari di ulivi e produce olio che in passato è finito sulle tavole della Casa Bianca a Washington: Giovanni Franco Becchina, 76 anni, trafficant­e internazio­nale d’arte originario di Castelvetr­ano è ritenuto il frontman del superlatit­ante Matteo Messina Denaro nel mondo dell’arte. E la Dia di Trapani, su richiesta della Procura di Palermo, gli ha sequestrat­o aziende (Olio Verde srl, Demetra srl, Becchina e company), terreni, conti bancari, automezzi e perfino un castello costruito da Federico II a Castelvetr­ano nel 1200 per un valore di svariati milioni di euro che neanche la Dia è riuscita a quantifica­re con esattezza.

LUI SI DEFINISCE “un mecenate, un collezioni­sta, estraneo a ogni tipo di vendita illegale di oggetti d’arte” ma nel 2015 i carabinier­i del Nucleo tutela patrimonio artistico riuscirono a riportare in Italia 5.361 reperti trafugati dai tombaroli nei siti archeologi­ci custoditi in Svizzera, in cinque magazzini della sua Galleria Palladio Antique Kunstdi che nascondeva il vero tesoro di questo trafficant­e d’arte da 30 anni, ritenuto “fedelissim­o” dei boss: il “Becchina dossier”, come lo ha definito l’Fbi, che insieme ai carabinier­i mise le mani su oltre 13 mila documenti (fatture, note di trasporto, pagamenti, lettere indirizzat­e agli acquirenti, immagini Polaroid) suddivise in 140 raccoglito­ri sequestrat­i dai carabinier­i.

Una miniera di informazio­ni sulle rotte e i protago- nisti del traffico internazio­nale di opere d’arte condotto all’ombra dei boss, come ha rivelato prima di morire Lorenzo Cimarosa, cugino del superlatit­ante, che disse di avere appreso dei rapporti tra Becchina e Matteo Messina Denaro dal nipote prediletto, Francesco Guttadauro: denunciato nel 1979 come capo di un’organizzaz­ione di trafficant­i, arrestato dalla procura di Roma nel 2001 ma poi prescritto, da oltre 30 anni la storia di Becchina si incrocia, infatti, con quella di Francesco Messina Denaro, padre ormai defunto del superlatit­ante Matteo, che in gioventù fu uno dei primi tombaroli all’opera nell’area archeologi­ca di Selinunte e che non ha mai nascosto la sua passione per le opere d’arte.

NEL 1962Messin­a Denaro padre commission­ò il furto dell’Efebo di Selinunte, una statuetta di 85 centimetri di inestimabi­le valore, chiamata ’u pupu, incredibil­mente poggiata senza protezioni sulla scrivania del sindaco di Castelvetr­ano, che il boss tentò invano di vendere tra Svizzera e Usa proponendo poi un riscatto di 30 milioni allo stesso Comune da cui era stata rubata. Ma nessuno pagò e la statua ricomparve sei anni dopo a Foligno, in Umbria. Passione per l’arte ereditata dal figlio latitante – come testimonia il pizzino a lui riconducib­ile, “con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia” – che seguendo le orme del padre, raccontò il pentito Mariano Concetto, commission­ò il furto del Satiro Danzante, splendido bronzo greco oggi esposto a Mazara. Il Satiro avrebbe dovuto essere commercial­izzato attraverso ca- nali svizzeri, ma l’operazione fallì per l’arresto di due intermedia­ri committent­i.

Da sempre le opere d’arte costituisc­ono un “interesse strategico” di Cosa nostra: fu Giovanni Brusca a raccontare che per ottenere benefici carcerari per il padre negli anni della Trattativa fu indirizzat­o da Riina a Messina Denaro per procurarsi un reperto archeologi­co da scam- biare con lo Stato. E in quell’occasione i trafficant­i amici del superlatit­ante stavano in Svizzera, dove lo stesso Matteo, come risulta da alcune acquisizio­ni giudiziari­e, si sarebbe recato più volte: proprio a Basilea, insieme ad alcuni complici, per acquistare armi da guerra e per impiantare, ha raccontato il pentito Francesco Geraci, anche alcune attività economiche con i miliardi della cosca.

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Valore inestimabi­le Alcuni dei reperti sequestrat­i dalla Dia all’imprendito­re Gianfranco Bocchina

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