Dopo lo scontro, le banche riaprono la partita Carige
La partita I soci di peso firmano l’impegno ad aderire all’aumento di capitale da 560 milioni. Il consorzio di garanzia pronto a dare l’ok
Dal baratro all’a cc o rd o che congela il rischio crac. Sulla Carige di Genova la situazione si ribalta in 24 ore: i grandi soci dell’istituto firmano gli impegni a sottoscrivere la propria quota dell’aumento di capitale da 560 milioni saltato mercoledì notte per l’indisponibilità del consorzio di garanzia ( Credit Suisse, Deutsche Bank e Barclays) ad accollarsi le azioni lasciate “inoptate” dai soci. Oltre a Vittorio Malacalza e alla finanziaria del petroliere Gabriele Volpi, che si sono impegnati a sottoscrivere l’aumento per il 17,6% e il 9,9%, sosterranno la ricapitalizzazione, pare, anche Coop Liguria e l’imprenditore Aldo Spinelli, titolari del 3,4% del capitale. A questi si aggiungerebbe anche la Fondazione. Il totale si avvicina al 30%, con l’impegno di Malacalza a portare il totale al 40% aumentando la sua quota. La mossa, riferivano ieri sera ambienti vicini al consorzio avrebbe portato al libera in serata. Un accordo vincolato all’ingresso di nuovi investitori ingabbiati a loro volta in accordi di “pre-garanzia”, segno dello scetticismo del consorzio sull’intera operazione. Alla fine hanno pesato i richiami partiti dal ministero dell’Economia: nessuno, alla vigilia delle elezioni, vuole che salti un’altra banca, l’ottava dal 2015.
SUL FUTUROdella prima banca ligure - la 12esima italiana, con 5mila dipendenti e 55 mila soci - è schiacciato in una partita di potere. Giovedì il titolo di Carige, già crollato del 30% da inizio settiman, è stato sospeso in Borsa dopo l’annuncio della rottura, e resta congelato. Malacalza, neofita del risparmio essendo entrato in Carige nel 2015 dopo una carriere costruita nella siderurgia ha sfode- rato i soliti modi spicci accusando il consorzio di non fare il proprio dovere. “Non ci ha firmato nessun impegno scritto”, la replica velenosa di Credit Suisse e soci. Solo dopo la firma, depositata ieri sera a Milano dal figlio Mattia Mala- calza si sono mossi anche gli altri soci e si è sbloccato il braccio di ferro.
A quanto pare lo scontro si è consumato sul controllo del gruppo. A giugno scorso Malacalza, azionista di riferimento con il suo 17,6%, ha silurato l’amministratore delegato Guido Bastianini, dopo aver cacciato il predecessore Piero Montani, sostituendolo con Paolo Fiorentino. A settembre l’ ex Unicredit ha lanciato l’aumento di capitale imposto dalla Banca centrale europea entro fine anno, parte di un rafforzamento da 1 miliardo. Malacalza si è subito scontrato con il nuovo ad ordinandogli che fosse tutto in opzione ai soci per non perdere la presa sulla banca, ma non è facile convincere i 55 mila piccoli azionisti ad aprire di nuovo il portafogli dopo gli 1,6 miliardi bruciati nei due aumenti di capitale del 2014 e del 2015. Il con- sorzio teme di trovarsi con una grossa fetta di “inoptato” da sottoscrivere, trasformandosi in un azionista di peso. Per questo si è guardato anche ad altri investitori di peso. Malacalza s’è infuriato e non ha firmato.
IERI SERA l’accordo era in dirittura d’arrivo, salvo sorprese verrà ufficializzato oggi. L’aumento potrebbe così andare sul mercato già la prossima settimana, una volta ottenuta l’autorizzazione della Consob alla pubblicazione del prospetto informativo. Il prezzo è stato già fissato al livello minimo di 1 centesimo. Tre anni fa quando il padre padrone Giovanni Berneschi, la cui gestione ha sfasciato la banca, è stato arrestato le azioni Carige valevano in Borsa circa 5 euro (dai massimi di 10 euro toccati negli anni d’oro). Sono svaniti 4 miliardi. Se l’aumento non dovesse partire si aprirebbe lo scenario del soccorso esterno con le nuove regole europee sulle crisi bancarie che impongono perdite prima ai creditori : con la “risoluzione” sul modello di quanto fatto con Etruria e le altre a fine 2015 verrebbero azzerati gli azionisti e oltre mezzo miliardo di euro in obbligazioni subordinate, di cui 150 milioni in mano a migliaia di piccoli soci. Stessa cosa con la liquidazione già sperimentata con le due popolari venete, ma in quel caso per regalare la parte sana a una banca di peso (tipo Unicredit) servirà una “dote” statale da 3,5 miliardi e garanzie per almeno altri 4. Sembra preclusa invece la strada della nazionalizzazione come fatto con il Montepaschi.
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