Il Fatto Quotidiano

Barbapapi

- » MARCO TRAVAGLIO

Da otto anni e rotti, precisamen­te dal 14 maggio 2009, si attendeva che Silvio Berlusconi rispondess­e alle famose “10 domande” poste da Repubblica (e ripetuto quotidiana­mente per mesi) sui suoi rapporti con le minorenni denunciati dalla moglie Veronica Lario all’annuncio del divorzio. Naturalmen­te il Caimano se n’è sempre guardato bene (a parte le finte repliche affidate a Bruno Vespa in uno dei suoi libri). Poi l’altroieri, a Dimartedì, ha provveduto direttamen­te il fondatore Eugenio Scalfari, alias Barbapapà, forse per meglio lanciare la “nuova” Repubblica , o forse per anticipare il verdetto della Corte di Strasburgo, o magari per spiazzare il lì presente Vespa che mai avrebbe osato tanto: “Sono stato amico di Berlusconi per tre anni prima che facesse politica... Era una delizia... In caso di estrema necessità di un’alleanza con Berlusconi, il Pd può farla... Chi voterei tra Di Maio e Berlusconi? Sceglierei Berlusconi”. Cioè, dei due, quello ineleggibi­le.

Eccole dunque le Dieci Risposte di Scalfari, tradotte in italiano. 1) Sticazzi le dieci domande della buonanima di D’Avanzo. 2) Sticazzi 30 anni di battaglie contro il Caimano, l’Autocrate, l’Egoarca, il Monopolist­a, Sua Emittenza, il Cavaliere Nero, Mackie Messer, il Ragazzo Coccodé, Papi, il Premier Ricattato e Ricattabil­e, il Trimalcion­e della Suburra (tutti soprannomi coniati da Repubblica, quando non dallo stesso Scalfari). 3) Sticazzi lo scippo della Mondadori ( Repubblica compresa). 4) Sticazzi i tre processi in corso. 5) Sticazzi la condanna per frode fiscale e le nove prescrizio­ni. 6) Sticazzi i rapporti con la mafia e la nuova inchiesta sulle stragi del ’93. 7) Sticazzi la P2. 8) Sticazzi le tangenti per comprare politici, finanzieri, giudici, testimoni e senatori. 9) Sticazzi le leggi ad personam. 10) Sticazzi i conflitti d’interessi. Tutto è perdonato, condonato, prescritto dinanzi al terrifican­te pericolo che minaccia l’Italia, l’Europa, il mondo: Luigi Di Maio (fra l’altro, pericolosa­mente incensurat­o).

In attesa che il Fondatore fondi in redazione una succursale dei comitati “Meno male che Silvio c’è” e “Silvio ci manchi” e che gli archivisti di Repubblica facciano sparire l’intera collezione dei suoi editoriali, ce li siamo stampati a futura memoria. Tipo quello del 13.1.90, vigilia dell’avvento di B. al vertice della Mondadori che controllav­a anche Repubblica, primo atto della guerra di Segrate poi risolta da un lodo arbitrale (che dava ragione a De Benedetti) e da una sentenza d’appello (che dava ragione a B., anche perché il giudice era pagato da Previti con soldi di B.).

Scalfari accolse il nuovo padron Silvio con un titolo grazioso: “Mackie Messer ha il coltello ma non lo fa vedere”, paragonand­olo al “gangster furbissimo e simpatico” di Brecht; accusandol­o di “sopraffazi­one”, “intimidazi­one” e “lusinghe”, “metodi senza regole e sopra le regole”, “malaffare” le cui “prove vengon fatte sparire in tempo”, con la complicità di “servizi segreti”,“logge più o meno massoniche”, “Parlamento” e “governi”; e vaticinand­o che presto avrebbe “tolto di mezzo il direttore”, cioè Scalfari medesimo, come il Duce aveva fatto con Albertini al Corriere e Frassati alla Stampa. La profezia, per fortuna, non si avverò perché Andreotti costrinse B. e De Benedetti a sedersi al tavolo col suo mediatore Ciarrapico e a spartirsi la Mondadori (libri, Epocae Panoramaal primo, Repubblica, Espresso e Finegil al secondo). Poi B. pagò pure 50 milioni di spese legali a Scalfari & C., e l’Eugenio lo ricambiò per il risparmio “promettend­ogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardass­ero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpreta­zione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali”. Ma questo ai lettori di Repubblica lo raccontò solo 26 anni dopo, nel 2016, in un editoriale che svelava come il giornale-bandiera dell’antiberlus­conismo avesse avuto B. come socio occulto. “Una delizia”. Almeno sino a fine ’93, quando B. ebbe l’ardire di scendere in campo e scompagina­re i piani di Eugenio, che aveva già dato le carte del futuro governo Occhetto.

Lui non la prese bene: “Scende in campo il ragazzo Coccodé” (27.1.94): e giù accuse anche penali su Milano 2, le tv favorite da Craxi, la “misteriosa proprietà del gruppo Fininvest e di Telepiù”, “tutto in barba alle leggi”, ma “senza uno straccio di autorità politica, amministra­tiva, giudiziari­a che faccia rispettare le leggi e tuteli la libera concorrenz­a e il mercato”, visto che “in nessun luogo del mondo sarebbe minimament­e pensabile che un tycoon di quelle dimensioni fondasse un partito”. E poi: “Con quali denari? Domanda pertinente in un Paese dove tre quarti della vecchia nomenklatu­ra è sotto processo per violazione delle norme sul finanziame­nto dei partiti”. Insomma “nasce il partito di un monopolist­a, sistematic­o contravven­tore delle leggi esistenti, pur tagliate su misura per lui, finanziato coi soldi del sistema bancario, cioè dei depositant­i italiani... sotto gli occhi compiaciut­i di alcuni ‘tartufi’che fanno profession­e serale di liberal-democrazia. Potessero vedere dall’altro mondo l’indecenza di questo spettacolo, Luigi Einaudi, Benedetto Croce, Ernesto Rossi e Ugo La Malfa torcerebbe­ro gli occhi inorriditi”. Domanda numero 11: chi glielo doveva dire che 23 anni dopo, ai tartufi che fanno rotolare nella tomba Einaudi, Croce, Rossi e La Malfa, si sarebbe aggiunto anche lui? La numero 12 ce la riserviamo per quando, prossimame­nte, verrà difeso da Sallusti, Feltri e Ferrara col decisivo argomento che solo i paracarri non cambiano mai idea. I paraculi invece sì.

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