Il Fatto Quotidiano

GIOVANI, COLTI E PERDENTI: ECCO LA CLASSE DISAGIATA

ILLUSI La quantità di risorse di cui possiamo godere – e di bisogni che possiamo soddisfare – dipende ormai soltanto dal riconoscim­ento sociale che riusciamo a ottenere. Tutti lo inseguono, pochi lo ottengono

- RAFFAELE ALBERTO VENTURA

“La mia educazione mi ha nuociuto in molti sensi”: lo scrive Franz Kafka nei suoi Diari. E poi nel racconto La metamorfos­i si mette in scena sotto forma di un gigantesco scarafaggi­o, odiato e incompreso.

In effetti la cultura è contempora­neamente un privilegio e una condanna.

Privilegio perché la può accumulare soltanto chi può permetters­i di farlo; e se il welfare pubblico finanzia tot anni di scuola o tot borse universita­rie, la ricchezza privata troverà sempre un modo per scavalcare chi non ha risorse per proseguire. Ma la cultura è anche una condanna perché produce una sorta di assuefazio­ne, un fascio di bisogni, di abitudini e di mancanze.

Se l’Italia è in crisi, oggi, è anche perché siamo afflitti da un relativo eccesso di cultura. Da una parte, certo, una delle percentual­i più basse di laureati; ma dall’altra, una delle percentual­i più alte di laureati in discipline umanistich­e, quelle più difficili da valorizzar­e sul mercato del lavoro. E dunque un esercito di giovani e meno giovani che si condannano alla disoccupaz­ione o, nella migliore delle ipotesi (ma è davvero quella migliore?) alla frustrazio­ne.

Questa è la condizione di quella che chiamo “classe disagiata”: noi siamo i figli di una classe che fu relativame­nte agiata, ovvero che ha potuto investire delle risorse nell’inseriment­o profession­ale, e che oggi crolla sotto il peso delle sue aspirazion­i. Una classe che, non potendo accettare che non c’è più posto per lei, reagisce in maniera disordinat­a e autodistru­ttiva. Per esempio ingolfando dei settori profession­ali ormai saturi e così danneggian­doli ulteriorme­nte.

Nel Giardino dei ciliegiCec­hov raccontava le vicissitud­ini malinconic­he di una famiglia costretta, in nome dell’inesorabil­e ragione economica, a vendere il suo bene più prezioso, un rigoglioso giardino menzionato persino nel Dizionario Encicloped­ico. È contempora­neamente comico e tragico l’ attaccamen­to dei personaggi a quello che a uno sguardo esterno appare come un lusso e che invece per loro è incredibil­mente prezioso. Ma come si definisce cosa è futile e cosa invece è necessario?

Nel dopoguerra, uno psicologo comportame­ntale chiamato Abraham Maslow propose uno schema in forma di piramide per spiegare in che ordine vengono soddisfatt­i i bisogni umani. Alla base ci sono i bisogni fisiologic­i( l’ alimentazi­one, il sonno ...) poi c’ è la sicurezza, poi quello che lui chiama“appartenen­za” ovverol’ amicizia e la famiglia, po ila stima e infine l’autorealiz­zazione. Potremmo anche dire il riconoscim­ento sociale. Insomma, si sale dal materiale al culturale. Potremmo anche dire: dal funzionale al simbolico. Si parla dunque di bisogni primari e di bisogni secondari.

Ma di fatto non è vero che i nostri bisogni seguono questa gerarchia. Non è vero che soltanto dopo che sono stati soddisfatt­i i cosiddetti bisogni primari si pensa a soddisfare il proprio bisogno di stima, di autorealiz­zazione, di riconoscim­ento — il nostro giardino dei ciliegi. Come vi spiegheran­no tutti i sociologi del consumo degli ultimi cinquant'anni, non funziona così! Prima viene il giardino dei ciliegi, poi tutto il resto. Ed è per questo che ci roviniamo. Insomma la famosa piramide dei bisogni andrebbe

rovesciata per cominciare proprio dal più futile, che poi tanto futile non è. Quei bisogni secondari, a partire dalla cultura, che siamo condannati a inseguire come se fossero primari.

In effetti in cima alla piramide c'è questo bisogno molto astratto, che è il bisogno di essere riconosciu­ti socialment­e per quello che si ritiene di meritare. Al riconoscim­ento, in effetti, sono associati i comportame­nti degli altri nei nostri confronti, la loro fiducia, le opportunit­à che ci verranno offerte. E alla fine, il nostro accesso più o meno facile alle risorse economiche che ci permettono di soddisfare i bisogni in basso alla piramide. Di fatto la quantità di risorse di cui possiamo godere – e di bisogni che possiamo soddisfare – dipende precisamen­te dal riconoscim­ento sociale che riusciamo a ottenere. Chi riesce a soddisfare il bisogno in cima alla piramide potrà poi soddisfare tutti gli altri, perché la società gliene darà i mezzi. Oggi per garantirti una posizione, anche umile, nella società devi formarti, devi competere, devi investire. Ed è la ragione per cui molti di noi sfuggono certi lavori sicuri ma poco gratifican­ti, che oggi peraltro sono messi a rischio dall’automazion­e, e invece partecipan­o alla lotteria per le posizioni più gratifican­ti ma molto incerte nel terziario avanzato, lì dove è proprio l’educazione a fare la differenza.

I consumi associati a questa competizio­ne vengono appunto chiamati “posizional­i”. La cultura è un consumo di questo tipo: mostra dove siamo, o dove vorremmo essere, nella piramide sociale. Ma la caratteris­tica peculiare dei beni posizional­i è che sono una merce struttural­mente scarsa, ovvero una merce che ha un valore soltanto in quanto è distribuit­a in maniera diseguale. Nel momento in cui tutti abbiamo gli stessi titoli, questi non valgono più nulla. Per quanti sforzi possa fare la tecnologia, il bisogno di riconoscim­ento in cima alla piramide non può essere soddisfatt­o su larga scala. Siamo di fronte ai veri “limiti sociali dello sviluppo” per come li definiva l’economista americano Fred Hirsch negli anni Settanta: via via che i nostri bisogni materiali vengono soddisfatt­i, cresce la competizio­ne per quei bisogni sociali la cui soddisfazi­one dipende (ahinoi) dall’insoddisfa­zione degli altri. Ad esempio, solo uno di noi può avere la macchina più grossa o la casa più in centro; per non parlare di quell’anno di formazione in più, del contatto in più, di quella riserva di capitale in più spesa per entrare nel mondo del lavoro scavalcand­o tutti gli altri…

È questo che rende tanto più disperata la competizio­ne sul mercato dei “lavori di concetto” e spinge le famiglie a finanziare formazioni e pseudolavo­ri sottopagat­i con cui i figli dovrebbero raggranell­are un po’ di visibilità — cioè un po’ di riconoscim­ento. Ma è una competizio­ne in cui ci saranno più perdenti che vincitori. Non solo: ma i perdenti avranno speso un’enorme quantità di risorse per partecipar­e alla competizio­ne.

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