GIOVANI, COLTI E PERDENTI: ECCO LA CLASSE DISAGIATA
ILLUSI La quantità di risorse di cui possiamo godere – e di bisogni che possiamo soddisfare – dipende ormai soltanto dal riconoscimento sociale che riusciamo a ottenere. Tutti lo inseguono, pochi lo ottengono
“La mia educazione mi ha nuociuto in molti sensi”: lo scrive Franz Kafka nei suoi Diari. E poi nel racconto La metamorfosi si mette in scena sotto forma di un gigantesco scarafaggio, odiato e incompreso.
In effetti la cultura è contemporaneamente un privilegio e una condanna.
Privilegio perché la può accumulare soltanto chi può permettersi di farlo; e se il welfare pubblico finanzia tot anni di scuola o tot borse universitarie, la ricchezza privata troverà sempre un modo per scavalcare chi non ha risorse per proseguire. Ma la cultura è anche una condanna perché produce una sorta di assuefazione, un fascio di bisogni, di abitudini e di mancanze.
Se l’Italia è in crisi, oggi, è anche perché siamo afflitti da un relativo eccesso di cultura. Da una parte, certo, una delle percentuali più basse di laureati; ma dall’altra, una delle percentuali più alte di laureati in discipline umanistiche, quelle più difficili da valorizzare sul mercato del lavoro. E dunque un esercito di giovani e meno giovani che si condannano alla disoccupazione o, nella migliore delle ipotesi (ma è davvero quella migliore?) alla frustrazione.
Questa è la condizione di quella che chiamo “classe disagiata”: noi siamo i figli di una classe che fu relativamente agiata, ovvero che ha potuto investire delle risorse nell’inserimento professionale, e che oggi crolla sotto il peso delle sue aspirazioni. Una classe che, non potendo accettare che non c’è più posto per lei, reagisce in maniera disordinata e autodistruttiva. Per esempio ingolfando dei settori professionali ormai saturi e così danneggiandoli ulteriormente.
Nel Giardino dei ciliegiCechov raccontava le vicissitudini malinconiche di una famiglia costretta, in nome dell’inesorabile ragione economica, a vendere il suo bene più prezioso, un rigoglioso giardino menzionato persino nel Dizionario Enciclopedico. È contemporaneamente comico e tragico l’ attaccamento dei personaggi a quello che a uno sguardo esterno appare come un lusso e che invece per loro è incredibilmente prezioso. Ma come si definisce cosa è futile e cosa invece è necessario?
Nel dopoguerra, uno psicologo comportamentale chiamato Abraham Maslow propose uno schema in forma di piramide per spiegare in che ordine vengono soddisfatti i bisogni umani. Alla base ci sono i bisogni fisiologici( l’ alimentazione, il sonno ...) poi c’ è la sicurezza, poi quello che lui chiama“appartenenza” ovverol’ amicizia e la famiglia, po ila stima e infine l’autorealizzazione. Potremmo anche dire il riconoscimento sociale. Insomma, si sale dal materiale al culturale. Potremmo anche dire: dal funzionale al simbolico. Si parla dunque di bisogni primari e di bisogni secondari.
Ma di fatto non è vero che i nostri bisogni seguono questa gerarchia. Non è vero che soltanto dopo che sono stati soddisfatti i cosiddetti bisogni primari si pensa a soddisfare il proprio bisogno di stima, di autorealizzazione, di riconoscimento — il nostro giardino dei ciliegi. Come vi spiegheranno tutti i sociologi del consumo degli ultimi cinquant'anni, non funziona così! Prima viene il giardino dei ciliegi, poi tutto il resto. Ed è per questo che ci roviniamo. Insomma la famosa piramide dei bisogni andrebbe
rovesciata per cominciare proprio dal più futile, che poi tanto futile non è. Quei bisogni secondari, a partire dalla cultura, che siamo condannati a inseguire come se fossero primari.
In effetti in cima alla piramide c'è questo bisogno molto astratto, che è il bisogno di essere riconosciuti socialmente per quello che si ritiene di meritare. Al riconoscimento, in effetti, sono associati i comportamenti degli altri nei nostri confronti, la loro fiducia, le opportunità che ci verranno offerte. E alla fine, il nostro accesso più o meno facile alle risorse economiche che ci permettono di soddisfare i bisogni in basso alla piramide. Di fatto la quantità di risorse di cui possiamo godere – e di bisogni che possiamo soddisfare – dipende precisamente dal riconoscimento sociale che riusciamo a ottenere. Chi riesce a soddisfare il bisogno in cima alla piramide potrà poi soddisfare tutti gli altri, perché la società gliene darà i mezzi. Oggi per garantirti una posizione, anche umile, nella società devi formarti, devi competere, devi investire. Ed è la ragione per cui molti di noi sfuggono certi lavori sicuri ma poco gratificanti, che oggi peraltro sono messi a rischio dall’automazione, e invece partecipano alla lotteria per le posizioni più gratificanti ma molto incerte nel terziario avanzato, lì dove è proprio l’educazione a fare la differenza.
I consumi associati a questa competizione vengono appunto chiamati “posizionali”. La cultura è un consumo di questo tipo: mostra dove siamo, o dove vorremmo essere, nella piramide sociale. Ma la caratteristica peculiare dei beni posizionali è che sono una merce strutturalmente scarsa, ovvero una merce che ha un valore soltanto in quanto è distribuita in maniera diseguale. Nel momento in cui tutti abbiamo gli stessi titoli, questi non valgono più nulla. Per quanti sforzi possa fare la tecnologia, il bisogno di riconoscimento in cima alla piramide non può essere soddisfatto su larga scala. Siamo di fronte ai veri “limiti sociali dello sviluppo” per come li definiva l’economista americano Fred Hirsch negli anni Settanta: via via che i nostri bisogni materiali vengono soddisfatti, cresce la competizione per quei bisogni sociali la cui soddisfazione dipende (ahinoi) dall’insoddisfazione degli altri. Ad esempio, solo uno di noi può avere la macchina più grossa o la casa più in centro; per non parlare di quell’anno di formazione in più, del contatto in più, di quella riserva di capitale in più spesa per entrare nel mondo del lavoro scavalcando tutti gli altri…
È questo che rende tanto più disperata la competizione sul mercato dei “lavori di concetto” e spinge le famiglie a finanziare formazioni e pseudolavori sottopagati con cui i figli dovrebbero raggranellare un po’ di visibilità — cioè un po’ di riconoscimento. Ma è una competizione in cui ci saranno più perdenti che vincitori. Non solo: ma i perdenti avranno speso un’enorme quantità di risorse per partecipare alla competizione.