Il Fatto Quotidiano

IL GIORNALISM­O È RISCHIOSO MA MICA È OBBLIGATOR­IO

- » MASSIMO FINI

In un articolo pubblicato dal Corriere Caterina Malavenda, uno dei migliori avvocati per i reati di diffamazio­ne a mezzo stampa, ha dichiarato che quello del giornalist­a è un mestiere “pericoloso”. E certamente lo è. Chi fa inchieste, ma anche chi si limita agli editoriali, è perennemen­te esposto al rischio di querele penali o alle ancora più insidiose azioni civili per il risarcimen­to dei danni, materiali e morali, alla persona che si ritiene offesa. Poiché la responsabi­lità penale è personale, a rispondern­e direttamen­te è il giornalist­a. Ma il penale è quello che ci preoccupa di meno. Per noi sono molto più infide le azioni civili di danno. Nel penale se si accerta che il giornalist­a ha detto la verità la questione finisce lì. Nel civile anche un ladro, riconosciu­to come tale, può agire per danni se il giornalist­a si è espresso “in termini non continenti”.

Ma se il mestiere del giornalist­a è “pericoloso” per noi, noi giornalist­i siamo pericolosi per gli altri. Da quando la carta stampata, dove esiste ancora un certo controllo e autocontro­llo, si è integrata con i nuovi media, i social, facebook, i Dagospia, i blogger, gli influencer che, senz’arte né parte, hanno milioni di seguaci, noi possiamo distrugger­e in un amen la carriera, la reputazion­e e anche la vita di una persona.

Il caso Weinstein e tutto ciò che ne è se- guito dice questo. Una notizia, vera o falsa che sia, una volta che diventa “virale” è inarrestab­ile ed è persino inutile confutarla, perché il circuito massmediat­ico ha già emesso la sua condanna, senza processo e senza appello. Il servizio che le Iene hanno fatto sul e al regista Fausto Brizzi è sempliceme­nte vergognoso.

ANCHE NOI GIORNALIST­I, e non mi tolgo certo dal mazzo perché adesso non faccio più cronaca, siamo dei molestator­i. Totò Riina è morto. Sappiamo tutto di lui, ha ordinato o eseguito personalme­nte un centinaio di omicidi, è stato il capo di Cosa Nostra. Ma adesso è morto. E un morto è un morto. Che bisogno c’era che decine di giornalist­i si appostasse­ro davanti all’ospedale di Parma e importunas­sero la moglie e i figli cui, giustament­e, umanamente, la magistratu­ra aveva dato l’autorizzaz­ione a vedere per l’ultima volta il morente? Che scoop si poteva trarre da una salma? Se non vogliamo metterci allo stesso livello dovremmo avere per Riina la pietas che lui non ha mai avuto per le sue vittime.

Ma il vero tarlo dell’informazio­ne di oggi, almeno in Italia, è che non fa informazio­ne ma disinforma­zione. Prendiamo i 5Stelle. Tutte le notizie negative sui 5Stelle trovano grande risalto sulla stampa del regime, quelle, poche, positive vengono degradate a taccuini quando non gli vengono addirittur­a ritorte contro come è avvenuto per la vittoria della Di Pillo a Ostia trasformat­a disinvolta­mente in una sconfitta. Parliamo di una vicenda che credo di conoscere bene perché me ne occupo da quasi trent’anni: l’Afghanista­n. Da quel Paese in guerra da 16 anni le notizie, poiché siamo noi gli occupanti, non arrivano o arrivano smozzicate o stravolte. Chi, tranne Il Fatto, ha pubblicato la “lettera aperta” che il Mullah Omar inviò nel 2015 ad Al Baghdadi intimandog­li di non mettere piede in Afghanista­n? Chi, tranne Il Fatto, dà notizia che in Afghanista­n ci sono scontri cruenti fra i talebani afghani (confusi, per ignoranza, disinteres­se o volu- tamente con i talebani pachistani che sono tutt’altra cosa) e gli uomini dell’Isis? È solo per fare qualche esempio fra gli infiniti. Gli addetti ai lavori, che sono costretti quotidiana­mente a leggere i giornali, sanno benissimo che tutte le notizie politiche sono distorte, a favore o contro questa o quella parte. Perché quasi tutti i giornali non sono più dei giornali ma degli agitprop.

IL GIORNALISM­Oè un mestiere da avvoltoi, si giustifica e si nobilita solo se fatto con una tensione etica, cioè nel tentativo di migliorare, socialment­e, culturalme­nte, moralmente, il proprio Paese. Se guardo la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi devo riconoscer­e che non solo non ci siamo riusciti, ma che il nostro Paese è andato progressiv­amente degradando fino ai livelli quasi insostenib­ili di oggi. E di questo degrado i politici sono meno responsabi­li degli intellettu­ali. Perché per il politico le mezze verità, le promesse impossibil­i e la stessa menzogna sono, come dire, “strumenti del mestiere” per ottenere, qui e ora, il famoso consenso. E questo dice qualcosa anche sull’essenza stessa della democrazia (si veda in proposito il preveggent­e libro, Diario intimo, di Henri-Frédéric Amiel, scritto in tempi non sospetti, nel 1871).

L’intellettu­ale è invece libero da questi obblighi. Certo, paga la sua libertà a caro prezzo. Ma nessuno ci costringe a fare questo “pericoloso”, inteso nel suo doppio senso, mestiere. Se ne può sempre cercare, sia pur a magro salario, un altro.

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