Quel fascino indiscreto del berlusconismo
“La democrazia è un sistema fragile, di uso delicato, presuppone un buon livello di consapevolezza nei cittadini utenti”
(da “Questa nostra Italia” di Corrado Augias – Einaudi, 2017 – pag. 9)
In un celebre film del 1972, intitolato Il fascino discreto della borghesia, il regista spagnolo Luis Buñuel propose una critica ironica e surreale di questa classe sociale, rappresentandone i vizi con toni grotteschi. E tali sono, appunto, quelli che bisognerebbe usare per raccontare oggi la resurrezione di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana, a più di vent’anni dalla sua fatidica “discesa in campo”. Avendo personalmente iniziato a contestarlo sulle pagine de L’Espressogià un decennio prima, in ragione dello strapotere mediatico che gli derivava dalla concentrazione televisiva e pubblicitaria, mi ritengo francamente immune da qualsiasi ripensamento o sospetto. Più che una resurrezione, quella a cui stiamo assistendo è in effetti una riesumazione in corpore vivo. Non tanto per la veneranda età del personaggio, quanto per la vetustà delle sue idee, delle sue proposte e perfino del suo linguaggio. Un uomo del passato non può essere un leader del futuro. Piuttosto che di Berlusconi, sarebbe opportuno magari parlare del berlusconismo. Cioè di quella mentalità collettiva, cultura o incultura di massa, che la sua ideologia televisiva e pubblicitaria ha inoculato in un largo strato dell’opinione pubblica. Un senso comune diventato “pensiero unico dominante”, in forza di quella “Sindrome di Arcore” – titolo di un mio vecchio libro per Longanesi – che, come accade ai rapiti o ai prigionieri per effetto della “sindrome di Stoccolma”, ha indotto gli italiani a infatuarsi del loro tiranno mediatico.
A PARTIRE dalla metà degli Anni 80, l’avvento della tv commerciale ha progressivamente modificato il nostro modo di pensare, di comportarci e anche di consumare. Berlusconi ha plasmato così il suo pubblico di telespettatori trasformandoli poi in elettori. Da fan, insomma, a supporter.
Ora il suo potere riciclato corrisponde alla debolezza degli avversari. Di tutti coloro – a cominciare dai leader del centrosinistra – che non sono riusciti a proporre finora un’alternativa affidabile e convincente; un progetto di società più giusta; un modello di sviluppo più equo e solidale. Il “fascino indiscreto” del berlusconismo è alimentato proprio dalle fragilità e dalle divisioni altrui.
A parte le impellenze dell’audience televisiva, è politicamente impropria la domanda da “Trivial pursuit” su chi scegliere tra Berlusconi e Di Maio. Scegliere in funzione di che cosa, di quale obiettivo o risultato? Se si tratta di un’eventuale coalizione, la risposta l’hanno già data i 5stelle escludendo preventivamente qualsiasi alleanza. E sul fronte opposto, ne avevano già messa in pratica un’altra Enrico Letta e la ditta “Bersani, D’Alema & C.” quando costituirono il “governo delle larghe intese” nel 2013: uno stato di necessità che si potrebbe replicare dopo le prossime elezioni. Non c’è una scelta obbligata, dunque, tra un bulldozer fumante e un piccone arrugginito. Se si vuole adottare il principio schumpeteriano della “d ist ru zio ne creativa”, con tutti i rischi e le incognite che comporta, l’enfant prodige del M5S è senz’altro più adatto. Se invece si vuole tornare all’epopea del berlusconismo, con tutti i guasti che conosciamo, forse il Tyrannosauro può rendersi ancora utile.
Per nostra fortuna, nella realtà non siamo costretti a scegliere tra Berlusconi e Di Maio. In politica, come nella vita, a volte bisogna accettare il male minore. Oppure, si può anche rinunciare legittimamente a scegliere.