Il Fatto Quotidiano

Scarpe e abiti, la nuova frontiera della schiavitù è Made in Europa

Salari sotto la soglia di povertà e trattament­o disumano: è quello che accade in molte aziende dell’Est che rifornisco­no il mercato italiano, secondo il report di “Abiti Puliti”

- PATRIZIA DE RUBERTIS

“Quando ho detto alla mia supervisor­e che non riuscivamo a respirare perché in fabbrica c’erano più di 30 gradi in fabbrica, lei ha preso il tubo di scarico della macchina e me l’ha puntato in faccia. E m’ha detto ‘Arrangiate­vi, c’è un sacco di gente pronta a sostituirv­i’. Quando si aprono le porte e le finestre? Solo se arriva dall’Italia un ispettore o un dirigente. E, in quel caso, accendono anche l’aria condiziona­ta”. A parlare è una lavoratric­e di una delle tante fabbriche in Serbia che producono vestiti e scarpe destinate al mercato europeo. Operai che, in condizioni lavorative non dignitose e salari ben al di sotto del livello di sussistenz­a, spesso inferiori a quelli retribuiti in Cina, rifornisco­no con i loro manufatti grossi marchi come Benetton, Esprit, Geox e Vera Moda. Brand che, quindi, spacciano per nazionali magliette e calzature tutt’altro che Made in Italy, così come emerge dai due rapporti Chance your Shoes e Cle an Clothes Camapaignp­romossi in Italia da Abiti Puliti.

NON È, PERÒ, solo la Serbia il paradiso dei bassi salari. La piaga dello sfruttamen­to colpisce al cuore di tutta Europa: dall’Albania alla Polonia, dalla Georgia alla Romania passando per Ungheria e Ucraina, si lavora in fabbriche che hanno come clienti – viene citato nel rapporto - i grandi marchi italiani, lusso compreso: Armani, Calzedonia, Dolce & Gabbana, Ermenegild­o Zegna, Golden Lady, Gucci, H& M, Max Mara, Mango, Prada, Tod’s, Triumph, Versace e Zara.

Basta pensare che molti dei 1,7 milioni lavoratori raggiunge appena la soglia del salario minimo legale, che varia dagli 89 euro in Ucraina ai 374 euro in Slovacchia. Ma il salario dignitoso, quello che permettere­bbe a una famiglia di provvedere ai bisogni primari, dovrebbe essere quattro o cinque volte superiore. E in Ucraina, ad esempio, questo vorrebbe dire guadagnare almeno 438 euro al mese.

“Pare evidente che i marchi internazio­nali stiano approfitta­ndo di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativ­i”, spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. Che aggiunge: “In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzion­i, le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a per dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrut­ture e servizi. E nelle zone franche sono pure esenta- te dal pagamento delle utenze mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginos­o aumento”.

COME È possibile che il Made in Italy sia prodotto tramite questa filiera sporca? Secondo la campagna l’origine del problema risale agli Anni 70, quando un gruppo di governi guidato da quelli tedesco e italiano, stabilì il regime di Traffico di Perfeziona­mento Passivo in Europa (TPP) verso l’Europa dell’Est. Un regime che permette alle aziende dell’Unione europea di mandare le materie prime in queste fabbriche dell’Est per trasformar­le in prodotto finito. Basta poi completare il confeziona­mento nel paese d’origine del marchio per etichettar­e la scarpa o l’abito come prodotto interament­e in patria.

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