Crac Etruria, le balle del Pd e del pm Rossi
Non solo Bankitalia: sono tutti coinvolti
■La testimonianza del procuratore di Arezzo serve a Renzi per scaricare tutte le colpe sul governatore Visco che voleva la fusione con PopVicenza. Ma l’ex premier e i Boschi c’entrano
Matteo Renzi non esagererà mai abbastanza le colpe di Banca d’Italia nel tracollo di pezzi rilevanti del sistema del credito. Al contrario dire “allora il problema non era il Pd” è una sottovalutazione del suo ruolo in quanto segretario e presidente del Consiglio. Le dilettantesche ingerenze di Maria Elena Boschi su Banca Etruria e la “passione” di Ignazio Visco per la Popolare di Vicenza di Zonin, a cui il leader toscano vorrebbe ridurre questo sfacelo, ne sono solo un pezzo e non il più rilevante. Una breve storia della disastrosa gestione Renzi del dossier banche.
QUANDO IL GIOVANE di Rignano defenestra Letta e arriva a Palazzo Chigi (febbraio 2014) la sua competenza sullo stato del sistema creditizio è, per così dire, lacunosa. Come se non bastasse, l’allora ministra delle Riforme Boschi inizia da subito a tenere incontri riservati a casa del padre Pier Luigi, prima membro del cda e poi vicepresidente di Etruria, per capire come salvare l’istituto aretino coi vertici di Veneto Banca. Una situazione che rende l’intero esecutivo “ostaggio” del conflitto di interessi della ministra e, dunque, oggettivamente succube di Banca d’Italia, l’occhiuto controllore della banca di papà. Lo scontro sul taglio degli stipendi di Palazzo Koch – peraltro vinto dal governatore – è solo folclore: per due anni Renzi (anche grazie al ministro Padoan) sulle banche ha fatto tutto ciò che voleva Bankitalia, assumendosene la responsabilità politica. Dopo ha iniziato a far danni da solo.
Il primo caso risale già al 2014, quando – gentilmente consigliata da Visco & C. – Popolare di Bari si carica la disastrata Tercas : il ministero dell’Economia benedice e passa due anni a trattare con Bruxelles attorno all’affascinante concetto se i soldi del Fondo interbancario di tutela dei depositi (che sono delle banche) siano da considerarsi statali.
Agennaio 2015 arriva la riforma che trasforma le banche popolari più grandi in Spa: al di là del merito – cioè la fine di un modello bancario cooperativo – quel decreto fu materialmente scritto da Bankitalia e Renzi se l’è poi intestato considerandolo un successo, nonostante abbia quan- tomeno velocizzato una serie di crisi (ad esempio, quella delle due banche venete). Quel testo serve, in sostanza, a rendere inevitabile il piano di fusioni pensato a Palazzo Koch per mettere in sicurezza il sistema (non funzionerà). Bankitalia poi lo “firma”: la contestata sospensione del diritto di recesso per i soci dissenzienti (poi bloccata dal Consiglio di Stato e oggi all’esame della Consulta) è stata rivendicata per iscritto dalla stessa banca centrale. Tutto merito della disinvolta comunicazione di Renzi, invece, la successiva indagine Consob sulle sospette plusvalenze (10 milioni di euro) registrate in Borsa sulle popolari prima del decreto: per la Procura non ci furono reati.
In quei giorni Boschi chiede aiuto all’ex ad di Unicredit Federico Ghizzoni per salvare Etruria, ma un mese dopo Padoan firma il commissariamento dell’istituto proposto da Bankitalia. Il capolavoro, però, è di novembre 2015: i decreti con cui l’Italia recepisce in anticipo il bail-in europeo (il divieto di salvataggi pubblici) e“liquida” Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti tosando azionisti e risparmiatori( segue l’ imbarazzante balletto, non ancora concluso, sui rimborsi agli obbligazionisti). È solo a dicembre però, col suicidio di un pensionato di Civitavecchia rovinato dal crac Etruria, che Renzi capisce la pessima situazione in cui si è infilato: a febbraio 2016, comunque, trova modo di fidarsi ancora di Bankitalia nel decreto di riforma delle Banche di credito cooperativo (salvo infilarci una via d’uscita per gli amici di Banca Cambiano).
A QUEL PUNTO, però, è già partito lo scaricabarile tra Palaz- zo Chigi e la Banca centrale. A gennaio 2016 Boschi aveva rilasciato una rancorosa intervista al Corsera sugli “autorevoli personaggi” che “suggerivano a Etruria un’aggregazione con la banca di Zonin”. Renzi, invece, si limita a benedire Monte dei Paschi:“È un affare”. In quel momento i toscani non vogliono più sentir parlare di interventi sulle banche, specie nell’anno che deve condurli al referendum costituzionale: la situazione di Pop Vicenza, Veneto Bancae Mps viene lasciata incancrenire mentre procede l’inutile balletto tra Padoan e Bruxelles su come e quanto può esporsi lo Stato.
In Veneto viene inviato il Fondo Atlante, che farà prendere uno spiacevole bagno a banche e fondazioni. Per il Monte viene scovata la “soluzione di mercato” proposta da Jp Morgan( con tanto di visita dell’ad Jamie Dimon a Renzi). Entrambi i bluff vengono scoperti dopo il referendum. A quel punto, e siamo al 2017, Gentiloni tira fuori 20 miliardi di euroche potevano essere meno intervenendo prima. E – sia detto per quelli che “il sistema è solido” – non è finita.
Oggi Monte dei Paschi è risanata e investire dei soldi è un affare Non c’è rischio sistemico, le banche italiane sono molto solide