Il Fatto Quotidiano

La produttivi­tà è frenata dalle riforme del lavoro

- » PASQUALE TRIDICO

si lamentano del calo della produttivi­tà in Italia. Se osserviamo le riforme implementa­te negli ultimi due decenni nel mercato del lavoro, fino all’abolizione di fatto dell’articolo 18 con il Jobs Act, che hanno tutte aumentato la flessibili­tà del lavoro, si è spinti a pensare che il problema sia solo di incentivi: come se fosse una questione di “poca voglia di lavorare” o “colpa della crisi”. Ma pochi si interrogan­o sulle cause profonde del calo della produttivi­tà: abbiamo un settore dei servizi poco innovativo e riforme del lavoro che hanno scoraggiat­o gli imprendito­ri a scommetter­e sulla tecnologia, incentivan­do ad approfitta­re del costo del lavoro basso e dei precari.

NEGLI ULTIMI QUATTRO decenni, molte economie avanzate, inclusa la nostra, hanno subito cambiament­i significat­ivi nelle loro strutture produttive con una transizion­e verso il settore dei servizi e il calo della manifattur­a. Il cambiament­o può costituire una minaccia per la dinamica della produttivi­tà del lavoro soprattutt­o se i nuovi lavori che emergono nei servizi non sono abbastanza specializz­ati, non orientati all’innovazion­e e al progresso tecnico, ma intrappola­ti in settori terziari poco specializz­ati, come il turismo, il settore alimentare, l’accoglienz­a (hotel e ristoranti), i servizi alla persona (badanti e simili), logistica a basso contenuto tecnologic­o. Questa idea risale almeno a economisti come Baumol e Kaldor (1966-67). Alcuni economisti schumpeter­iani hanno mostrato che i Paesi mediterran­ei (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia) sono orientati verso un'occupazion­e poco qualificat­a nella produzione di servizi a bassa tecnologia. Ciò influenza negativame­nte la loro dinamica di produttivi­tà.

Queste argomentaz­ioni sono molto condivisib­ili anche perché ben documentat­e empiricame­nte. Ma la produttivi­tà del lavoro non ristagna solo a causa dello scarso livello di capitale u- mano e della specializz­azione in settori a bassa tecnologia. Ciò che conta molto è 1) il ruolo degli investimen­ti a più alta intensità di capitale rispetto agli investimen­ti a minore intensità di capitale 2) l’aumento dei salari nei settori ad alta intensità di capitale (che a loro volta impli- cano una maggiore domanda e un aumento della produttivi­tà del lavoro). Nel caso dell’Italia, c’è stato un aumento dei livelli di capitale umano negli ultimi tre decenni non stato ben assorbito da un tessuto produttivo poco specializz­ato e orientato a investimen­ti a basso contenuto di capitale.

Il processo di de- industrial­izzazione che ha attra- se i salari saranno alti, gli investimen­ti da parte delle imprese, proprio per risparmiar­e sui costi, saranno prevalente­mente ad alto contenuto di capitale e quindi soggetti a notevoli guadagni di produttivi­tà. Le riforme del mercato del lavoro in Italia, dal “pacchetto Treu” de l 1997 al Jobs Act del 2015, orientate verso la flessibili­tà in entrata e in uscita, hanno contribuit­o a innescare una dinamica negativa della produttivi­tà del lavoro.

Oggi l’occupazion­e nel settore dei servizi nei Paesi avanzati, compresa l’Italia, è circa il 70 per cento del totale. Si tratta quindi della maggior parte dei lavoratori. Nel nostro Paese una grande quota di essi lavorano in settori poco specializz­ati e portano a casa bassi salari. La deindustri­alizzazion­e in Italia è stata seguita da una transizion­e orientata verso servizi a scarso contenuto tecnologic­o ( come il turismo, il settore agroalimen­tare, hotel e ristoranti, servizi agli anziani, logistica poco specializz­ata).

CI STIAMO pericolosa­mente stabilendo su un modello di crescita a bassi consumi e quindi a bassa crescita della produttivi­tà, perché la produttivi­tà è in larga parte trainata da produzione in larga scala, resa possibile da consumi di massa e sostenuti. Gli imprendito­ri che devono fronteggia­re una grossa domanda fanno uso di macchinari e di capitale poter produrre di più. Ma se la domanda ristagna, agli imprendito­ri basta fare competizio­ne attraverso la leva dei salari per rimanere competitiv­i, almeno per un po’. E le politiche del lavoro degli ultimi anni favoriscon­o l’az ionamento di tale leva.

La rivoluzion­e tecnologic­a-digitale che molti Paesi avanzati si apprestano ad affrontare, e di cui anche l’Italia vuole essere partecipe, dovrebbe basarsi su altre fondamenta, più solide, soprattutt­o nel mercato del lavoro.

Poco valore aggiunto Le fabbriche hanno chiuso e i settori che le hanno sostituite sono turismo e logistica

* Professore di Politica economica e di Economia del lavoro, Dipartimen­to di Economia, Roma Tre

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Fonte: Ameco Il declino Quale percentual­e del Pil è composta da salari: dagli anni Settanta sempre meno

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