Il Fatto Quotidiano

UN BOIA È UN BOIA, MA PROCESSARE I VINTI È IMMORALE

- MASSIMO FINI

Non capisco, o lo capisco troppo bene, perché svilire a “spettacola­re pacchianat­a”, a “ridicolo”, a “parodia del passato” il gesto del generale croato- bosniaco Slobodan Praljak, ingegnere e regista nella vita civile, che ha ingerito una fiala di veleno, suicidando­si, proprio mentre il Tribunale penale internazio­nale dell’Aia per “i crimini di guerra nella ex Jugoslavia” lo condannava a vent’anni. Quando un uomo paga con la vita la coerenza a se stesso, ai suoi princìpi, alle sue azioni, quali che siano state, merita rispetto. Lasciamo pur perdere che fra le accuse principali mosse a Praljak c’è quella, risibile, di aver distrutto l’antico ponte di Mostar (solo i nazisti, forse più attenti all’arte che agli esseri umani, rinunciaro­no a far saltare il Ponte Vecchio di Firenze perdendo, con ciò, diecimila soldati, mentre degli americani è stato trovato un progetto per spazzar via la Torre di Pisa perché non riuscivano ad aver ragione di quattro – quattro – mitraglier­i tedeschi che vi si erano appollaiat­i). Non si tratta di questo. Perché il plateale gesto di Praljak ha un alto valore, oltre che etico, politico: è il rifiuto spettacola­re della giustizia dei vincitori. Il premier croato Andrej Plenkovic ha così commentato: “L’atto di Praljak parla in modo chiaro dell’ingiustizi­a morale nei confronti di sei croati condannati oggi dal Tpi”. E ha proseguito contestand­o la decisione di una “corte politica”. Ma lo stesso discorso, suicidio a parte, si può fare per il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic condannato una settimana prima all’ergastolo, per gli stessi motivi, dal Tpi.

Tutto ha inizio con i processi di Norimberga e di Tokyo quando, per la prima volta nella Storia, i vincitori non si accontenta­rono di essere più forti dei vinti ma si sentirono anche moralmente migliori così da avere il diritto di giudicarli. In tal modo si finiva per far coincidere il diritto con la forza, la forza del vincitore.

I PROCESSI DI NORIMBERGA E DI TOKYO suscitaron­o forti perplessit­à proprio negli ambienti liberali internazio­nali. Scriveva l’americano Rustem Vambery, docente di Diritto penale, sul settimanal­e The Nation del 1° dicembre 1945: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere con la legge… Giudici guidati da ‘sano sentimento popolare’, introduzio­ne del principio di retroattiv­ità, presunzion­e di reato futuro… ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerav­a legge. Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattament­e il contrario di questa storia e di questa prassi nazista fosse universalm­ente riconosciu­to co- me parte integrante del diritto e della giustizia”. E Benedetto Croce, in un discorso tenuto all’Assemblea Costituent­e il 24 luglio 1947, affermava: “Segno inquietant­e di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarl­o) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonan­do la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguend­o e concludend­o con ciò la guerra”. E The Guardian ammoniva nel 1946: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportame­nto delle nazioni che ne sono responsabi­li”. Ciò che hanno combinato sovietici e americani dopo la fine della Seconda guerra mondiale dà la risposta a questa domanda.

ANCHE SE VI MANCA l’applicazio­ne del principio di retroattiv­ità io non ho mai avuto fiducia nel Tribunale Internazio­nale dell’Aia alla cui giurisdizi­one, tra l’altro, sono sottratti, chissà in nome di che, i politici e i militari americani. Come ribadii qualche anno fa, in una conferenza che si tenne a Lugano, a Carla Del Ponte che di quel Tribunale dell’Aia è stata Pubblico ministero. Ma se si vuol credere al Tribunale dell’Aia per i crimini commessi nella guerra di Bosnia ben altri dovrebbero essere coloro da trascinare sul banco degli imputati. Sono i principali esponenti di quella imprecisat­a entità che si chiama Comunità internazio­nale.

Il collasso dell’Urss aveva provocato il disfacimen­to della Jugoslavia. Slovenia e Croazia ottennero facilmente il riconoscim­ento di Stati dalla Comunità internazio­nale, sotto la spinta, in particolar­e per la Croazia cattolica, della Germania e del Vaticano. Allora anche i serbi di Bosnia chiesero un’altrettale riconoscim­ento o la possibilit­à di unirsi alla madrepatri­a serba. Una Bosnia multietnic­a, a guida musulmana, si giustifica­va solo all’interno di una Jugoslavia multietnic­a (era stato un capolavoro di Tito, e prima ancora dell’Impero austrounga­rico, tenere insieme tre comunità, croata, serba, musulmana, che si sono sempre detestate). Ma quello che era stato facilmente concesso dalla Comunità internazio­nale a croati e sloveni venne negato ai serbi di Bosnia. E questi scesero in guerra. E la stavano vincendo, sia perché, come i croati, potevano contare sulla confinante madrepatri­a, mentre i musulmani bosniaci non avevano un retroterra e ricevevano solo uno sporadico sostegno dall’Iran, sia perché sono ritenuti, sul terreno, almeno fino all’avvento dei guerriglie­ri dell’Isis, i migliori combattent­i del mondo – si deve alla resistenza serba quel ritardo nell’attacco all’Unione Sovietica che, complice il Generale Inverno, fu fatale a Hitler. Ma la Comunità internazio­nale, europei in testa seguiti dagli americani, decise che quella guerra i serbi non la dovevano vincere e i vincitori furono trasformat­i in vinti. È stato così creato uno Stato, la Bosnia, che non era mai esistito e che viene tenuto in piedi con lo sputo ed è pronto a esplodere in ogni momento. Come dimostrano le grandi manifestaz­ioni popolari di questi giorni in Croazia e in Serbia che fanno emergere un odio che le sentenze del Tribunale dell’Aia non fanno che rinfocolar­e.

Sarebbe bastato che la cosiddetta Comunità internazio­nale avesse riconosciu­to ai serbi quello che loro spettava e la guerra di Bosnia, con i suoi crimini e i suoi misfatti, non ci sarebbe mai stata. E nemmeno le sentenze, di assai dubbia legittimit­à, del Tribunale dei vincitori.

SIMBOLI Quando un uomo paga con la vita la coerenza a se stesso, ai suoi princìpi, alle sue azioni, quali che siano state, merita rispetto. Il plateale gesto di Praljak è il rifiuto della giustizia dei vincitori

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In alto, il generale croato-bosniaco Slobodan Praljak, suicida mentre leggevano la sua sentenza di condanna per crimini contro l’umanità
Ansa Crimini contro l’umanità In alto, il generale croato-bosniaco Slobodan Praljak, suicida mentre leggevano la sua sentenza di condanna per crimini contro l’umanità
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